la Repubblica, 25 settembre 2022
Intervista a Luciano Ligabue
Luciano Ligabue ha un sorriso timido che si allarga all’improvviso quando strizza gli occhi.
Sediamo altavolo di una trattoria tra i campi a Correggio, ci si arriva tra sentieri stretti di fossi illuminati d’erba quasi argentata. La luce di settembre è un mezzogiorno morbido, e il Liga ci parla dentro. Canta da trent’anni, e fra pochi giorni saranno sette concerti all’Arena di Verona, neppure un seggiolino libero. Quelli tra palco e realtà. E le parole, di nuovo tutte qui.
Luciano, cominciamo dalla sua mamma Rina che dice: “As fa col c’a ghe da fer”, si fa quello che si deve fare.
«Io ho un bisogno enorme di cantare in mezzo alla gente, gli anni del Covid sono stati una sofferenza particolare e ne sono uscito scrivendo l’autobiografia. Mai avrei pensato di farlo, è stata la madre di tutte le sfide. Prima vivevo l’urgenza, la frenesia, poi mi sono messo a ricostruire la mia vita per scriverla, al limite dell’incoscienza artistica. Una libertà mai nemmeno immaginata».
Lei scrive in diretta, alpresente. Perché?
«Ho provato a rendere il flusso del tempo mentre scorre, la vita in provincia, ci ho messo le persone, la tenerezza. E anche la gratitudine per tutte le mie fortune, per gli incontri che mi sono toccati».
Ligabue che scrive libri che Ligabue è?
«Sempre lo stesso, cambiano solo le regole da seguire. Una canzone prevede trecento, quattrocento parole al massimo e io rispetto le rime, la metrica, le forme: mi piace. Una sceneggiatura tiene conto del senso visivo e del budget sin dalla prima riga. La narrativa, invece, è lasciarsi andare, la parola sta da sola ma la musica è sempre in me. Le frasi devonosuonare».
C’è una parola chiave: “uèter”, gli altri. Chi sono?
«Sono la mia storia, intanto.
Un’infanzia introversa e felice, anche se c’erano pochi soldi. Le feste dell’Unità, la partecipazione corale, i dibattiti nelle biblioteche, i bellissimi concerti gratis. Gli studenti, gli operai e gli intellettuali che andavano nella stessa direzione. Le prime radio libere d’Italia, gli amici, le prime canzoni».
Anche la politica?
«Non riesco a fare a meno dell’idea di un mondo migliore, e infatti ci sbatto il muso ogni giorno. Ma quelli come me non guariscono, non accettano che si sia persotutto. Gli altri sono attenzione, urgenza. Gli altri sono una responsabilità».
Andrà a votare,immaginiamo.
«Certo che sì, anche se con grande difficoltà. Per mia figlia Linda, che ha diciotto anni, sarà la prima volta. Le ho spiegato più o meno cosa sono i partiti, le ho raccontato cosa succedeva a me da ragazzo, le ho detto “fai e scegli come vuoi, ma sappi che…”. Mi è venuto in mente un vecchio compagno di scuola in quarta ragioneria, era il 1978: lui per il suo primo voto aveva scelto la Dc, e io gli dicevo “ma com’è possibile, ma come fai?”.
Lui mi rispondeva: ”Voto e mi turo il naso”. Ora si fa la stessa cosa anche noi, chi l’avrebbe maidetto».
Certo che con questi personaggi…
«Noi rimpiangiamo una classe politica lontana, ma proviamo a prendere Berlinguer con i social e Twitter: cosa ne uscirebbe? Dài, concediamo qualche attenuante a quelli di adesso».
Come si racconta la necessità del concerto, “quell’enorme stare insieme”?
«Non esiste un sinonimo per la parola emozione. Forse, cantare in pubblico per me significa anche riprodurre quel senso di partecipazione degli anni Settanta. Di sicuro continuo a cercare le facce, riesco a vederle, a distinguerle, dalla passerella e dal palco immagino le loro storie e a volte mi distraggo, perdo il filo dei testi. Ho davanti quelli che, trasfigurati, cantano: forse, soltanto il momento del gol allo stadio è qualcosa di simile.
Amo guardare l’abbandono del pubblico, quando ridono, cantano, stonano senza vergognarsi. Ho fatto più di 800 concerti e non riesco a starne senza. Una vicinanza che nella realtà non c’è».
La realtà è scrivere da soli?
«Non bisogna mai figurarsi l’ascoltatore immaginario. Io non so se le mie canzoni siano belle, e quali. Non so perché alcune poi diventino un pezzo della vita di qualcuno, però mi accontento di far parte delle cianfrusaglie di questo qualcuno, mi basta tenergli compagnia. Non mi sono mai sentito un cantante, ma uno che canta le cose che ha da dire. La parola giusta è interprete. Però le varianti sono troppe, è un enorme mistero non risolto. Dobbiamo bearci dei misteri, non averne paura».
Dipenderà anche dalla voce, la sua è così speciale.
«Da piccolo mi sbagliarono l’operazione alle tonsille, forse davvero è cominciata lì.
Sicuramente la mia voce è riconoscibile: fa dire “sì”, oppure “no”, ma non “forse”. Il più grande di tutti, Fabrizio De Andrè, lo ricordiamo sempre per le meravigliose parole che scriveva: ma come le porgeva, come le scandiva? Neppure cantata da Mina, e dico Mina, La canzone di Marinella è la stessa cosa. La voce è una vibrazione, entra nell’orecchio, crea sintonia oppure no. Può anche generare fastidio».
Nel suo libro lei narra di un agghiacciante dentista della mutua e delle cambiali dei suoi.
Aiuta, salire dal basso?
«Non ho mai avuto la percezione dell’azzardo, quando papà le firmava. Lui era un ariete. In famiglia mi hanno sempre trasmesso soltanto la gioia di vivere. Anche adesso che ha 84 anni, per mamma è tutto bello, canta le miecanzoni e viene ancora ai concerti».
Se diciamo “mangiadischi”?
«Ripenso a quando capii che la musica è rotonda, è nera e ha dei solchi. Finalmente potevi ascoltarla quando volevi, e tutte le volte che volevi. Chissà perché i mangiadischi erano sempre arancioni».
E se le diciamo Pavarotti?
«Andai a trovarlo nella sua tenuta, quattro o cinque giorni prima che morisse: era sullasedia a rotelle e stava facendo lezione a un allievo, lo sgridava, gli ripeteva “devi vivere le parole che stai cantando!”.
Eccolo, il segreto. Quand’era un giovane tenore famoso solo nei dintorni, Luciano andò a cantare al Tropical, la balera dei miei, a Rovereto sul Secchia. Mamma mi dice sempre: “Era un così bell’uomo, portava un maglione a collo alto”».