la Repubblica, 24 settembre 2022
Intervista a Emmanuel Carrère
Era partito con l’idea di immergersi nel racconto delle vittime, ascoltando "esperienze estreme di vita e di morte messe alla prova", nella convinzione che al capolinea qualcosa in lui sarebbe cambiato. Dopo aver seguito per dieci mesi il maxiprocesso degli attentati del 13 novembre 2015 - 130 vittime, tra cui l’italiana Valeria Solesin - Emmanuel Carrère pubblica in Francia V13, il nome in gergo usato da magistrati, avvocati e giornalisti che hanno partecipato a questo kolossal giudiziario.
Il libro, che sarà tradotto l’anno prossimo da Adelphi, raccoglie, integrandoli, gli articoli apparsi sull’Obs e Robinson. Un diario di bordo in cui Carrère riesce a cogliere l’umanità dei protagonisti, la terribile ironia delle parole e delle situazioni, dando una dimensione universale al groviglio di orrore e ideologia sfilato in aula. "Non immaginavo che sarebbe stato così emozionante" confida nel suo appartamento inerpicato in un vecchio passage del decimo arrondissement. "Quando nell’autunno scorso ho proposto a L’Obs di seguire le udienze non avevo escluso di smettere se fosse diventato troppo noioso".
E invece è stato difficile salutare a luglio questa strana carovana che si è creata nel Palazzo di Giustizia?
"Come tanti cronisti di giudiziaria pensavo che il processo non aveva una reale rilevanza penale. Sul banco degli imputati erano assenti gli esecutori materiali dei massacri. La voce delle parti civili, in numero impressionante, rischiava di essere diluita. E poi questo processo era presentato come una sorta di grande spot per la giustizia e la democrazia. Invece siamo stati tutti sorpresi di essere così coinvolti da non voler perdere nessuna udienza".
È andata così: uno spot per la giustizia e la democrazia?
"Il dibattimento si è svolto in modo sereno, c’è stato rispetto tra le parti, compresi gli imputati. All’inizio era legittimo chiedersi: c’era davvero bisogno di tutti questi mesi di processo? Ci siamo poi accorti che questo periodo lungo ha permesso alle cose di dispiegarsi e a noi di metabolizzarle".
C’è un filo di frustrazione perché nel processo molte domande sono rimaste in sospeso?
"Non significa che non abbiamo imparato nulla. È stato affascinante capire come si costituisce una cellula terroristica. Le testimonianze delle parti civili sono state sconvolgenti. Di solito chi segue i processi è interessato soprattutto agli imputati. Sono loro il mistero da scavare. Nel V13 si trattava di un mistero povero. Al contrario, le parti civili hanno svelato invece quello che si potrebbe definire il mistero del bene".
In circostanze così tragiche la maggior parte delle vittime ha dato il meglio di sé?
"Una delle parti civili, a cui era stato chiesto cosa si aspettasse dal processo, ha detto: "Mi aspetto che si formi una narrazione collettiva". È qualcosa che abbiamo visto scorrere davanti ai nostri occhi. Dalle testimonianze individuali è emersa una storia collettiva. Per quanto ognuna di queste voci fosse terribile, il coro era magnifico. Abbiamo pianto molto anche se non sono un tipo che si commuove facilmente. Più volte mi sono svegliato in lacrime nel mezzo della notte".
Lei scrive che era importante ascoltare anche una voce discordante, come quella di Patrick Jardin, che ha perso la figlia al Bataclan ed è ancora abitato dall’odio. Perché?
"Molte delle parti civili hanno mostrato una dignità e una nobiltà impressionanti, che illustrano la frase del libro di Antoine Leiris: "Non avrete il mio odio". Dietro a questa frase c’è l’idea che la legge e la serenità del processo fossero il modo migliore per combattere il terrorismo. È bello e giusto. Ma pensare che si possa fare completamente a meno dell’odio, almeno in una fase, mi insospettisce".
Rende omaggio agli avvocati della difesa.
"La difesa degli imputati è stata condotta bene. Molte delle parti civili non hanno confuso i terroristi con i loro avvocati. Ognuno ha svolto il suo ruolo al meglio delle capacità. Mi è sembrata un’eccezionale prova di maturità civile".
Quando ha capito che queste cronache potevano diventare un’opera letteraria?
"Avevo già un progetto di libro sul jihadismo che ho abbandonato perché nel corso del processo ho capito che non volevo passare altro tempo con dei terroristi e comunque non avevo le capacità per farlo. Non sono un islamista, né un musulmano, né un arabista. Ho preferito quindi rielaborare queste cronache, articolarle, incrementarle".
Durante il suo reportage in Russia, all’inizio della guerra in Ucraina, ha avuto voglia di non scrivere più del V13?
"Avevo organizzato il viaggio in Russia in modo da perdere solo un giorno del processo. Per puro caso sono arrivato a Mosca all’indomani dell’inizio della guerra e ho deciso di rimanere per scrivere un reportage. Tornando a Parigi, come tanti ho avuto l’impressione che questo processo avesse perso rilevanza e non interessasse più a nessuno. Ma dopo qualche giorno tutti abbiamo sentito che dovevamo essere lì e che avremmo continuato".
L’intuizione originale era giusta: questo processo l’ha cambiata?
"È un po’ enfatico dirlo ma ha cambiato un po’ tutti quelli che hanno partecipato senza che possa dire esattamente come. Ascoltare un tale coro di esperienze umane, di sofferenza, di pietà, di terrore, cambia qualcosa nella propria sensibilità. Forse rende più vulnerabile".
Perché vulnerabile? C’è stata anche la forza della resilienza.
"Sì, ma la forza della resilienza, a mio avviso, deriva sempre dall’accettazione della vulnerabilità".
Da un punto di vista letterario, cosa ha imparato?
"La forma della rubrica settimanale - con uno spazio limitato e una scadenza di consegna - mi ha affascinato. Non ho mai avuto la sensazione di essere a corto di materiale, anche se all’inizio era una preoccupazione. In realtà, mi è piaciuto molto essere inquadrato in questo ritmo di pubblicazione".
E il suo prossimo progetto?
"Non ho idea di cosa fare. Non ho nessun progetto, ma arriverà".