la Repubblica, 24 settembre 2022
Cronaca della campagna elettorale di Letta
Alzi la mano chi vorrebbe trovarsi oggi nei panni di Enrico Letta. Questo veniva in mente, con rispetto e perfino con ammirazione, vedendolo agitare a ritmo il microfono, scettro d’incerta permanenza, durante il balletto finale con cui si è concluso il comizio finale del Pd a piazza del Popolo; sullo stesso palco – e faceva uno strano effetto – che ieri l’altro ha ospitato la manifestazione del centrodestra, solo rivestito di rosso, dal che si deduce che i nemici giurati della campagna si sono smezzati le spese con la società di installazioni per calcare in definitiva lo stesso palcoscenico.
Alle spalle di Letta, a corona non del tutto rassicurante e sullo sfondo di un enorme tricolore, si è disposta alla fine una sessantina fra cacicchi, oligarchi, maggiorenti, notabili e notabilesse, vecchie volpi e gente per bene, furbacchioni e furbacchione di tutte le risme e individui di buona volontà, più una bambina dai capelli biondi, simbolo d’innocenza. La piazza un po’ meno popolata di quella patriottica dell’altra sera; la platea abbastanza moscia, tanto che per tre volte il presentatore-metronomo ha invocato di sventolare le bandiere distribuite in gran copia secondo il generoso format berlusconiano. Pochi i giornalisti, i fotografi e gli operatori tv attratti dall’evento. Soppresso il buffet, unico colpo ad effetto l’arrivo del leader, sotto il proscenio, a bordo del pulmino ecologico, veicolo non esattamente baciato dalla fortuna, piantatosi per mancanza di elettricità, a parte la leggenda che era stato centrato da un fulmine.
Letta ha fatto Letta, con un sovrappiù di gesti e frasi ad effetto che un pochino stonavano con il suo temperamento sorvegliato, al massimo ironico, e i suoi modi assai civili; così come goffi, non solo col senno di poi, erano suonati nel suo linguaggio le Agorà «meglio di una partita di Champions», l’«allarme democratico», poi corretto, e gli auspicati «occhi di tigre»; oltre ai suoi, di occhi, almeno in foto, allorché si è camuffato da camerieree gli hanno messo due pizze in mano.
Perché Letta in realtà resta più uomo di centri studi, quasi un tecnocrate, che sanguigno comiziante o cinico manipolatore di alleati. Quasi di sicuro anche un signore paziente e ieri se n’è avuta prova quando, venuto il suo turno, il governatore De Luca, in climax gigionesco e smorfia di dispotico spregio, se n’è uscito a freddo: «Non mi sento di dire che offriamo un segretario scoppiettante...».
Ora, per il Pd le prospettive sembrerebbero abbastanza cupe e anche per questo rendere anzitempo al suo segretario l’onore delle armi è quasi peggio dell’entusiasmo artificiale che a stento si è cercato di creare a piazza del Popolo. Così mentre le campane di una delle tre chiese si scioglievano elui sollecitava la folla a scandire “En-ri-co! En-ri-co!”, nel nome di Berlinguer, ecco di nuovo veniva da pensare: e sì che in questi 18 mesi ce l’ha messa tutta, ma non è bastata. Chissà se guidare il Pd è stata davvero quella «meravigliosa pazzia» che gli profetizzò Emiliano; «non ti fare intrappolare» aveva consigliato Prodi; “Daje, Enrì, ripijamose sti cocci” stava scritto sullo striscione della prima sezione cui andò in visita, a Testaccio, dove abita ed esiste effettivamente un Monte dei Cocci su cui nidificano i pappagalli.
Onesto e a suo modo temerario, Letta, fino all’autolesionismo. Si aggiungano: l’anima, il cacciavite, il rompighiaccio, il suo Milan, la sua Pisa, la sua Arel, Dylan Dog, la collezione di campanelli (come Andreotti: hanno preso a regalarglieli dopo la scena con Renzi), la mongolfiera per gli auguri digitali, la foto di Andreatta che sorride dietro la scrivania, ma anche la bellezza di 621.818 euri come reddito imponibile per il 2021, per mediazioni d’affari planetari prima di approdare al Nazareno, non esattamente una cifra da leader di un partito di sinistra. Comunque un partito che oscilla tra la seduta collettiva di psicanalisi e il mattatoio. Ma per favore, direbbe lui, «evitiamo il grottesco pirandelliano».