Corriere della Sera, 24 settembre 2022
Balzac, il mito dell’obiettività e la credibilità di un giornalista
Giovedì sera, in apertura del suo programma Il cavallo e la torre (Rai 3) Marco Damilano ha detto – come stabilito dall’Agcom – che l’ospitata del filosofo francese Bernard Henry-Lévy ha violato «i principi di pluralismo, obiettività, completezza, correttezza, lealtà e imparzialità dell’informazione». Ha recitato l’ordinanza dell’Autorità in fretta, con giustificato fastidio: «Andiamo avanti». E ha fatto bene. Basta rileggere la frase dell’Agcom (l’Autorità di garanzia delle comunicazioni è presieduta da Giacomo Lasorella, nominato da Giuseppe Conte) per capire che in poche parole sono stati cancellati anni e anni di grande giornalismo. Lasciamo perdere il pluralismo, il volto nobile della lottizzazione (forse Damilano avrebbe dovuto invitare anche un filosofo ungherese?), ma ormai sono anni che nessuno crede più alla favola dell’obiettività: un giornalista dice la verità, è corretto, è leale quando ammette di aver tratto i fatti secondo le proprie opinioni.
La credibilità di un giornalista (Montanelli, Biagi, Bocca o chi volete) dipenderà unicamente dalla sua capacità di seguire un metodo riconoscibile, dichiarato e applicato con coerenza. Potendo, uno stile. Sull’idea di obiettività sono stati scritti numerosi libri di filosofia per dimostrare che è un miraggio, ma bastava che i membri dell’Agcom leggessero (pardon, rileggessero) quel capolavoro di Illusioni perdute di Balzac pubblicato nel 1843 dove sono mirabilmente descritti vizi e virtù del giornalismo per essere più prudenti nell’usare parole così enfatiche: «Se la Stampa non esistesse, bisognerebbe non inventarla; ma ormai c’è, e noi ne viviamo».
Il mito dell’obiettività è una manifestazione di falsa coscienza. Come ha scritto Eco, «il compito del giornalista non è quello di convincere il lettore che egli sta dicendo la verità, bensì di avvertirlo che gli sta dicendo la “sua” verità. Ma che ce ne sono anche altre».