Corriere della Sera, 24 settembre 2022
Parla Suslov, politologo vicino a Putin
Quando Putin dichiara di essere pronto a «usare tutti i mezzi militari a disposizione», allude anche all’impiego di armi nucleari tattiche?
«Non come arma di prima istanza, né nel breve periodo. Da parte russa l’impiego delle bombe atomiche tattiche rimane un’arma di deterrenza. Il riferimento di Putin è uno strumento retorico per forzare l’Occidente a non aumentare, anzi a ridurre l’aiuto militare a Kiev e per dissuaderlo dall’entrare direttamente in guerra, per esempio spiegando truppe nelle regioni occidentali dell’Ucraina o altrove, specialmente quando l’aumento delle forze russe costringerà le forze ucraine a ritirarsi».
Dmitrij Suslov dirige il Centro di studi europei e internazionali presso la Scuola superiore di Economia, uno dei più importanti istituti russi dove viene pensata la politica estera del Cremlino.
Perché Putin ha ordinato ora la mobilitazione parziale?
«I tempi sono dettati dal successo dell’offensiva delle forze ucraine soprattutto nella regione di Kharkiv e a Donetsk, dove ha complicato i piani militari russi. La conclusione è che la Russia non può vincere questa guerra solo con un corpo di spedizione numericamente inferiore all’avversario: a Kharkiv parliamo di un rapporto di 1 a 8 a favore degli ucraini e questo ne spiega il successo. La scarsezza di personale è stata la principale debolezza russa in questa campagna e ora è chiaro che rischiamo di non poter più tenere neppure i territori rimanenti, a meno di una escalation della presenza militare. La mobilitazione, sia pur parziale, è un atto obbligato».
Ma perché accompagnarla con i referendum per l’annessione dei territori di Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhia e Kherson?
«Per due ragioni. Primo, per giustificare la mobilitazione: le persone saranno molto più motivate se sanno di combattere una guerra difensiva invece che aggressiva. Non è più un’operazione militare speciale in territorio straniero, ma una guerra patriottica per difendere e proteggere la madrepatria, la sua indipendenza e integrità territoriale. La seconda ragione è il tentativo di forzare l’Occidente collettivo al tavolo negoziale. Putin e il gruppo dirigente hanno adottato una persistente retorica che indica gli Usa e la Nato parte in causa. La Russia considera Stati Uniti e Alleanza Atlantica avversari in questa guerra. Dopo i referendum, il rischio di una Terza guerra mondiale aumenterà in modo esponenziale. Una volta annessi i quattro territori, ogni missile occidentale che li colpisce verrà considerato una dichiarazione di guerra. E mi chiedo se l’Occidente accetterà il rischio di un conflitto mondiale, continuando l’attuale massiccia fornitura di armi a Kiev, oppure se accetterà di ridimensionarla».
Ma la mobilitazione non è apprezzata dall’opinione pubblica russa. In questi giorni assistiamo a proteste a Mosca e altrove.
«Non c’è protesta diffusa, nulla che sia neppure lontanamente paragonabile a quelle del 2012 su Piazza Balotnaya. I numeri sono bassissimi, massimo a doppia cifra. La vera protesta è quella di chi se ne va, perché non vuole andare sotto le armi. E qui parliamo di diverse migliaia di persone. Ma questa non è una minaccia per il sistema. Certo, non c’è dubbio che il popolo vorrebbe continuare una vita normale».
Ci sono ancora spazi di negoziato? Cosa vuole Putin?
«Putin è pronto ad accettare negoziati anche domani, alle condizioni della Russia. Ma io credo che gli scenari possibili siano due. Il primo è una trattativa con Stati Uniti e Nato, senza l’Ucraina, subito dopo l’annuncio di Mosca che i quattro territori sono russi. Il secondo è molto peggiore. La Russia continua la mobilitazione, che non cambierà la situazione sul terreno in una notte. Ci vorranno tre o quattro mesi perché le nuove truppe siano pienamente operative al fronte. Alla fine di quest’anno o all’inizio del prossimo l’esercito russo lancerà la sua controffensiva. A quel punto tutto dipenderà dalla disponibilità dell’Occidente a negoziare, dallo stato di esaustione delle parti, da come l’Ucraina sopravviverà nei prossimi mesi con un’infrastruttura economica e civile distrutta, da come l’Europa supera l’inverno, dall’effetto cumulativo delle sanzioni sulla Russia».
Cosa si aspetta il Cremlino dalle elezioni italiane di domenica?
«È abbastanza chiaro che la coalizione di centro-destra vincerà. Ma non ci aspettiamo che Roma cambi immediatamente la sua posizione attuale su Ucraina, armi e sanzioni. C’è un «deep State» anche in Italia, una burocrazia della politica estera che lo impedirà. Neppure Trump riuscì a cambiare quella americana. Vedremo l’accordo di governo. Meloni sembra più falco verso Mosca, Salvini e Berlusconi più colombe. Penso che i cambi eventuali saranno nei dettagli, non nei fondamentali».
Nelle ultime settimane, anche alleati tradizionali come Cina e India hanno apertamente criticato la guerra e Putin appare isolato.
«Non è isolamento. C’è una pressione politica di Cina e India affinché la Russia metta fine alla guerra, ma non al prezzo della sua sconfitta. Xi Jinping lo vuole perché più a lungo la guerra continua, più grande sarà la pressione americana sulla Cina. Allo stesso tempo né Cina né India hanno alcun interesse in una sconfitta russa, che per loro sarebbe un disastro politico. Credo invece che lo stato attuale dei rapporti sino-russi sia una prova di sostenibilità e stabilità: a dispetto del fatto che la Cina non voleva questa guerra e la vorrebbe chiusa presto, le relazioni crescono e sono intense sul piano economico, politico e strategico».