La Stampa, 24 settembre 2022
L’Italia apatica che non vota più
Un’altra campagna elettorale è giunta finalmente a conclusione, e anche questa, come molte di quelle che l’hanno preceduta, è stata proprio brutta. Vien da dire: per fortuna che almeno è stata breve, cominciata sotto gli ombrelloni e ridottasi, in definitiva, a tre settimane di settembre.
Un recentissimo studio demoscopico mette inflazione e crisi energetica in cima alle preoccupazioni degli italiani. Poi tasse, stipendi e povertà. Temi quali l’immigrazione, l’ambiente e i diritti, almeno in questo momento, restano un passo indietro. Ma la campagna elettorale, a ben vedere, non si è concentrata poi troppo sui cinque argomenti economici che gli elettori hanno dichiarato prioritari: su quei terreni i partiti non sono riusciti più di tanto a distinguersi l’uno dall’altro offrendo soluzioni robuste e convincenti. Con un’eccezione, soprattutto: il Movimento 5 Stelle ha puntato sulla povertà, incentrando la propria campagna elettorale esclusivamente sulla difesa del reddito di cittadinanza. Un’eccezione che, non per caso, sembra stia funzionando.
In mancanza d’altro, la campagna è stata occupata allora dai rapporti tra la politica italiana e il contesto europeo e internazionale. Qui non ci siamo fatti mancare proprio nulla: indiscrezioni-bomba ventilate ma non divulgate; uscite inopportune di leader politici di altri paesi europei o dell’Unione; polemiche per quelle uscite; scontri feroci sull’Ungheria di Orbán; distinguo e ambiguità, espresse in alcuni casi in maniera quanto mai scomposta, sul conflitto ucraino; accuse conseguenti. Vedremo naturalmente quali saranno i risultati del voto di domenica, ma, almeno per il momento, l’impressione è che queste polemiche abbiano inciso poco.
Ce la si può sempre prendere con gli elettori, naturalmente, insensibili alle grandi questioni internazionali e incapaci di comprendere che le sfide economiche possono essere affrontate solamente su scala globale. Ma si può pure pensare che gli elettori siano in realtà più saggi di quel che sembra, e abbiano capito che, in Italia, i conflitti sulla politica estera ed europea finiscono per essere più liturgici che sostanziali. Per la semplice ragione che, esattamente come non può affrontare da sola l’inflazione o la crisi energetica, e qualsiasi promessa i partiti facciano in materia suonerà vuota, allo stesso modo l’Italia non potrà che conservarsi solidale con l’Unione europea e la Comunità Atlantica. A tal punto non ha alternative, l’Italia, che i politici che in questa campagna elettorale sono apparsi meno ostili a Putin – Berlusconi, Conte e Salvini – hanno in realtà sostenuto in parlamento, in ogni sua parte, la politica estera antirussa del governo Draghi.
Si spiega così, forse, lo iato un po’ assurdo fra l’attenzione quasi isterica dei media internazionali, intenti a guardare queste elezioni come se stessero rimirando la fine del mondo o poco meno, e l’apatia del Paese che dovrebbe causarla, la fine del mondo. Un Paese nel quale, a quarantott’ore dal voto, parecchi elettori non hanno ancora deciso per chi votare, mentre moltissimi, probabilmente ben più che nel 2018, alle urne proprio non si scomoderanno ad andare. Si spiega, quella divergenza, con la scissione sempre più profonda fra il palcoscenico della politica, che gli osservatori stranieri guardano pensandolo reale, e la sala macchine del governo, dove il corso stabilito può essere modificato pochissimo o per nulla. E tanto vale, allora, votare per il reddito di cittadinanza, qui e ora. Alla bomba di Putin penserà comunque qualcun altro.