Corriere della Sera, 24 settembre 2022
Lavatrici in premio agli elettori del Donbass
Si vota nei giardini e nei cortili. Nelle cucine e sulle scale dei palazzi. Nei bar e nei negozi. Nei mercati e sui tetti delle macchine. Niente cabine, va bene una penna qualsiasi. La croce va fatta sotto gli occhi della commissione elettorale e d’un paio di uomini incappucciati e armati. La scheda non si piega e finisce bell’e spalancata dentro urne portatili di vetro, proprio come accadde nel 2014 in Crimea, dov’era normale che i soldati di Putin controllassero il voto. «Puoi anche sbarrare sul “no” – ci racconta D.K., 46 anni, che vive a Kherson – in tal caso, loro si segnano i tuoi dati. Se invece ti rifiuti di votare, hai due scelte. O trovi lo scrutatore gentile che ti consiglia di stare attento, perché hai un lavoro e dei figli. Oppure, se non c’è nessuno che ti filma, puoi prenderti un calcio sul rene dagli incappucciati». E tu che cos’hai scelto? «Dormirò cinque notti fuori casa. E non mi farò trovare».
Minacce armateVotare o scappare. La scelta di D.K. è la scelta di molti. Lui ha un casotto in campagna, «lo usavo per cacciare». Ci starà nascosto tutti e cinque i giorni del referendum, «poi m’inventerò qualcosa per andarmene». Non sono ancora andati a pescarlo a casa, ma sa che accadrà: «Fino a lunedì, i russi gireranno porta a porta. Dicono che è perché ci sono pochi scrutatori, non c’è stato il tempo di fare le commissioni elettorali, non c’è il voto online… Non ci crede nessuno: perché allora si presentano agli elettori coi soldati armati? La cosa migliore che si può fare, è non aprire. Ma a volte, la porta, la buttano anche giù». Racconta il governatore esiliato di Lugansk, Sergei Haidai, che a Starobilsk hanno trascinato la gente sui pianerottoli. «E a Bilovodsk, il direttore d’una fabbrica ha chiamato i dipendenti e ha parlato chiaro: chi non vota, perde il lavoro».
Che la farsa abbia inizio. S’apron le urne, si cercano i voti. E i votanti: a costo di licenziarli, di convincerli con una lavatrice in regalo, d’andare a pigliarli fra gli orfanelli. Nel Lugansk e nel Donetsk, a Kherson e Zaporizhzhia, in territori occupati e sì e no controllati, ecco il referendum di Putin. Annunciato tre giorni fa e organizzato tra i fucili spianati. Con qualche giornalista vero, fra i 542 accreditati. Senza osservatori indipendenti, a meno che si vogliano considerare neutrali i 132 monitor – elenca l’ultranazionalista russo Sergei Kurginyan – «che sono arrivati apposta dalla Francia e dagli Usa, dal Portogallo e dal Qatar, dalla Cina e dalla Gran Bretagna, dalla Romania e dal Venezuela, dal Sudafrica e dal Togo», ovviamente dalla Russia e perfino dall’Italia: perlopiù membri d’ong gradite al Cremlino, visto che l’Onu ha bocciato questa buffonata e molti osservatori locali dell’Osce sono da mesi agli arresti, in attesa di processo per collaborazionismo con gli ucraini.
Brogli e premiSi sa già come andrà, affluenza e risultati. Più spintanea che spontanea, la partecipazione prevista da Mosca è fra il 72 e l’87%. Ma circolano immagini di seggi vuoti, con qualche sparuta babushka o code di soldati. Le telecamere s’affollano solo intorno a Denis Pushilin, l’autoproclamato presidente del Donetsk, che in grigioverde s’esalta per «la storica pietra miliare» e «l’unica via giusta verso la Grande Russia». A Melitopol, l’ex segretario comunale conta 27 camion carichi di gente portata a votare dalla Crimea. «Tutte persone costrette – dice il sindaco ucraino Ivan Fedorov – l’ordine è creare un’immagine di voto partecipato e l’illusione della regolarità». In alcuni quartieri è stato diffuso il divieto di lasciare il luogo d’abitazione prima del 27 settembre, ultimo giorno utile per votare. Il segretario comunale ucraino di Zaporizhzhia, Anatoly Kurtev, racconta che «ai residenti vengono promessi premi in denaro ed elettrodomestici, se approfittano del voto anche per chiedere il passaporto russo». Secondo i servizi di sicurezza di Kiev, per gonfiare i dati dei votanti, la scheda elettorale è finita in mano pure ai minorenni, compresi quelli che stanno negli orfanotrofi.
A Donetsk, tanto per far capire che si sbriga una semplice formalità, il quesito è solo in russo: «Sostieni l’adesione della tua repubblica alla Russia come suddito federale?». Cinque giorni per dare l’unica risposta ammessa, altri cinque per proclamare l’unico risultato possibile: al massimo il 2 ottobre, dice il Cremlino, la Costituzione entrerà in vigore nel 15% dell’Ucraina e l’Anschluss permetterà a Putin di mandare più soldati in queste aree, fino a «difenderle» come se fossero Grande Madre Russia a tutti gli effetti. Per ora, Kiev risponde preparando una controffensiva nel Lugansk e coi diciotto missili Himars lanciati dove si vota: Zelensky sa che quasi nessuno al mondo riconoscerà l’annessione e preferisce parlare degli orrori che ogni giorno si scoprono, come le camere delle torture dove la soldataglia putiniana – certificano gli osservatori Onu, dopo avere visitato 27 villaggi e interrogato 150 testimoni – è arrivata a torturare anche i bambini.
Il presidente ucraino stavolta manda un videomessaggio in russo, lingua che peraltro parla meglio, un appello alle coscienze oltreconfine già sgomente per gli arruolamenti forzati: «Voi siete complici di tutti questi crimini. Perché siete stati sempre zitti. Adesso in Russia è il momento di scegliere. Per gli uomini, se restare storpi o sani. Per le donne, se perdere per sempre i mariti, i figli, i nipoti. O proteggerli dalla morte e da una sola persona».