ItaliaOggi, 24 settembre 2022
Orsi & tori
“Cancellazione del debito pubblico”. E’ un’opera del grande Emilio Isgrò, collocata all’ingresso della Bocconi. La inaugurò, pochi mesi prima di diventare presidente del consiglio, l’allora e attuale presidente della più importante università economica italiana, il prof. Mario Monti. Tutti gli studenti entrando leggono quella frase anche in latino, in una delle più classiche opere d’arte dell’artista che ha l’esclusiva di realizzare capolavori cancellando le parole scritte.
Per Monti, che allora era già citato come possibile capo del governo dopo le dimissioni non spontanee di Silvio Berlusconi, era un viatico ideologicamente condiviso, ma che poi non è riuscito ad avverare una volta salito a Palazzo Chigi. Segno che il debito pubblico italiano è duro da ridurre, non solo per la complessiva e inefficiente struttura del paese, ma per la assoluta indifferenza a esso da parte di quasi tutti i partiti italiani e sicuramente da parte di quei partiti che MF-MilanoFinanza
di sabato 17 settembre, a una settimana dal voto, ha interrogato con tre domande semplici ma chiave: 1) Il suo partito che piani ha per utilizzare il grande risparmio italiano a fini produttivi nazionali, che ancora oggi per il 75% viene messo in investimenti esteri? 2) Che piano ha il suo partito per rilanciare la Borsa italiana e creare un vero mercato dei capitali per il paese che è secondo al mondo per risparmio? 3) Il suo partito che iniziative pensa di assumere per tagliare l’enorme debito pubblico italiano?
Non uno dei sei partiti interpellati ha voluto formulare risposte nette alle tre domande, tutte e tre strettamente collegate fra loro. Nessuno ha pensato e proposto che il grandissimo debito italiano si possa ridurre come farebbe qualsiasi azienda che ha debiti superiori al fatturato e per contro un patrimonio consistente: esattamente la stessa situazione dell’Italia. Il debito italiano, secondo Banca d’Italia, è stato pari a giugno scorso a 2.766 miliardi di euro, più 11,2 miliardi rispetto al mese precedente, segnando un record assoluto. Se si mette in relazione il debito con il pil (cioè il fatturato dell’Italia) si scopre che il debito è pari al 150,8% del pil.
Tutti i partiti invece di considerare che l’Italia ha un grande patrimonio pubblico e quindi che una parte di esso potrebbe essere venduto, si limitano a sostenere nelle risposte che cosa hanno sempre detto, legislatura dopo legislatura; e cioè che il debito viene reso meno grave solo facendo crescere il pil. E’ vero che in questo caso il rapporto scenderebbe e in parte è sceso nei mesi del governo Draghi, ma per capire la gravità del debito anche in rapporto al pil (debito/pil) occorre tenere conto che raggiunge in Italia il 140%,mentre in Francia è il 120% e in Germania appena il 59%.
I partiti non hanno neppure l’accortezza di ascoltare i consigli e le proposte del più grande banchiere italiano. Non solo una volta, ma più e più volte rischiando perfino di diventare noioso, il ceo di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, ha dichiarato che la prima banca del paese può organizzare fondi immobiliari locali per monetizzare pezzi del patrimonio che lo stato ha girato anni fa agli enti locali in adempimento a una legge approvata dal governo di sinistra presieduto da Massimo D’Alema e attuata dal ministro dell’economia del governo successivo, Giulio Tremonti, inclinante verso la Lega, forte negli enti locali. La maggior parte degli immobili passati a comuni e regioni sono diventati un costo per gli enti assegnatari, mentre se gestiti con criteri privatistici possono rendere e quindi creare un reddito per i sottoscrittori privati del fondo ma anche per gli enti, potendo essi tenere una quota anche significativa del fondo.Nessun partito ha saputo o voluto dire perché una simile manovra non debba, non possa, essere compiuta.
Il patrimonio passato dallo stato agli enti locali è calcolato in 400 miliardi circa, che guarda caso è più o meno il concorso degli enti locali al debito pubblico del nuovo record. Non è necessario realizzare 400 miliardi, creando per altro una opportunità al grande risparmio italiano. Basterebbero 130-150-180 miliardi da destinare al taglio del debito pubblico. Sarebbe il modo per neutralizzare prima che monti la condanna dell’Italia da parte degli altri paesi europei, a cominciare dalla Germania, che ha un debito inferiore al 60% del pil, o dei paesi cosiddetti frugali che non aspettano altro che ripetere un’altra operazione come quella che toccò alla Grecia. L’Italia è la terza economia dell’Europa, quindi quella sorte greca non le (ci) toccherà, ma certo mostrare la capacità di tagliare il debito può dare una forza straordinaria al paese nel consesso europeo e ai mercati oltre che offrire al grande risparmio italiano una opportunità in Italia. Il tutto realizzato e garantito dalla prima banca del paese.
Con un segnale inequivocabile come il Tagliadebito anche il costo del debito, che rimarrebbe comunque enorme, scenderebbe. Per capirlo basta guardare lo spread, cioè la differenza fra il tasso che deve pagare lo stato italiano e quello che paga lo stato tedesco. Oggi è superiore al 2%, ma se si guarda indietro nella storia del paese si incontra il grande disastro proprio per l’enorme dimensione dello spread che portò alle dimissioni del governo Berlusconi e la nomina a presidente del consiglio il professor Monti. Lo spread è il misuratore dell’affidabilità, dal lato finanziario, di un paese: più è alto lo spread meno affidabile è il paese. E il paradosso è che l’Italia, il paese con più risparmio privato d’Europa, è il paese meno affidabile come debitore.
Il paese che nel mondo industrializzato ha il debito più alto in assoluto è il Giappone. Ma fra Italia e Giappone c’è una differenza decisiva: il debito giapponese è posseduto quasi totalmente da cittadini, enti e banche giapponesi. E’ insomma una faccenda interna a quel paese, mentre il debito italiano è in larga parte posseduto da entità estere, per il rendimento più alto che garantisce rispetto ai titoli di altri. Se rendesse meno non verrebbe sottoscritto.
Naturalmente, il debito non si taglia ma si può rendere e meno pericoloso facendo salire il pil, cioè il denominatore. E l’ideale, irraggiungibile per l’Italia, è la Germania che appunto ha debito pubblico inferiore al 60% del suo pil.
Ma come si fa a far salire il pil? La spiegazione pratica viene da quanto è successo fino a pochi mesi fa: con gli investimenti resi possibili dal Pnrr, anche se solo per una porzione dei 200 miliardi possibili di finanziamenti europei, l’Italia ha stabilito il record di crescita in Europa, come legittimamente ha rivendicato il presidente Mario Draghi. E’ la dimostrazione pratica che se si investe, il pil cresce e con esso il benessere del paese. E il paradosso inaccettabile, terribile, è che gli italiani sono i più grandi risparmiatori in Europa, quindi in Italia i capitali da investire non mancherebbero. Ma il 75% dei quasi 6 mila miliardi di risparmi italiani va all’estero. Per due semplici ragioni: 1) perché sono proprio gli italiani a fidarsi relativamente dei titoli si stato nazionali; 2)perché in Italia manca un vero mercato dei capitali che in italiano si chiama Borsa valori, in Usa Stock market.
La mancanza di un vero mercato borsistico è un male cronico. Le ragioni sono diverse, ma piuttosto che indagarle serve assai di più capire come questo mercato può essere sviluppato. La ricetta è semplice: più società quotate, più risparmio che rimane in Italia, più crescita del pil.
E’ davvero sconfortante che alla specifica domanda fatta ai principali sei partiti da MF-MilanoFinanza su quale sia la loro ricetta per creare un vero mercato dei capitali adatto a un sistema produttivo basato quasi tutto sulle pmi, con pochi grandi gruppi, la risposta più ardita sia stata quella di sviluppare ulteriormente i Pir, cioè i piani individuali di risparmio, che esistono da qualche anno e hanno già espresso il loro massimo di miliardi raccolti e investiti. Nessun partito, dicasi nessuno, ha avuto l’ardire di indicare l’unica ricetta decisiva: quella fiscale. Si parla in altri contesti di flat tax, ma nessuno dice che la ricetta sicura per la creazione di un vero mercato è semplice e di fatto senza costi: sconto fiscale per le aziende che si quotano e altrettanto sconto fiscale per chi investe. Tali sconti fiscali non ridurrebbero le entrate dello stato ma con uno sviluppo maggiore, la crescita del pil, la base fiscale per le tasse ordinarie crescerebbe, migliorando di molto il risultato del bilancio pubblico.
E’ vero che occorre anche la semplificazione del processo per le società che vogliono quotarsi: qualche partito lo accenna, ma c’è anche necessità di una azione del governo attraverso CdP, che come significativo azionista, pretenda da Euronext un’azione per cancellare il vantaggio che borse come quella di Amsterdam hanno sia dal punto di vista del regolamento che dei costi. Se Euronext vuole essere davvero la borsa della Ue deve fare in modo che le società e gli investitori abbiano sostanzialmente lo stesso trattamento in ogni borsa Euronext. Invece non è così e da quando esiste Euronext varie grandi aziende italiane, l’ultima Exor, hanno lasciato Milano per essere quotate solo ad Amsterdam. Certo ci sono anche questioni fiscali che dipendono dai governi ed è noto che la Ue tollera una sorta di paradisi fiscali sia in Olanda che in Lussemburgo, in Olanda e in Irlanda. Ma è il governo italiano, se crede che solo la crescita possa salvare l’Italia e ridimensionare il pericolo del debito, che deve o ottenere parità per Milano (l’Italia, fra l’altro, pesa per 1/3 dei ricavi di Euronext grazie all’enorme peso del mercato dei titoli di stato) oppure, appunto, accentuando lo sconto fiscale, far essere la Borsa italiana la più competitiva in modo da trattenere in Italia e mettere a frutto il risparmio italiano.
La titubanza dei partiti a lanciarsi in proposte energiche fa mal sperare per i tre fattori contenuti nelle tre domande fatte ai sei maggiori schieramenti e rimaste sostanzialmente senza risposta effettiva. Possibile che anche la Cina, nonostante sia un paese comunista, consideri le Borse uno strumento fondamentale per il suo sviluppo e che al contrario i partiti che governano o vogliono governare l’Italia non consideri fondamentale per lo sviluppo del paese il mercato dei capitali ?
Non solo possibile, ma possibile e deprimente.
Si va a votare e chi conosce l’importanza del mercato borsistico per raccogliere capitali e determinare la crescita, si trova a non avere tre risposte fondamentali dai partiti che, di qualunque colore siano, almeno a parole mettano concretamente lo sviluppo del paese al centro dei loro obbiettivi. Si, una tale dimenticanza o indifferenza è possibile: basta andare a rileggersi le risposte pubblicate sul numero del 17 settembre.
Ma se non si taglia il debito in senso reale in senso relativo al pil e non si realizza per questo obbiettivo un vero mercato dei capitali, l’orizzonte del paese, con la crisi generale in atto, appare più che fosco. Tutti i partiti fanno riferimento in positivo o in negativo(FdI condotto da Giorgia Meloni e Lega di Matteo Salvini) alla Ue. La Meloni e Salvini ritengono che l’Europa condizioni negativamente l’Italia. In realtà non è così e in ogni caso, a meno che i due leader del centrodestra non vogliano organizzare una Brexit all’italiana, sono le regole di Bruxelles e di Strasburgo che valgono anche per l’Italia. Forse si dimenticano che il Fiscal compact è solo temporaneamente sospeso e appena ritornerà in vigore condannerà l’Italia a forti sanzioni proprio per il suo enorme debito pubblico. D’accordo che anche la Francia supera con il debito le percentuali previste nel Fiscal compact, sicuramente punitivo, ma la Francia ha il più ampio mercato borsistico dopo quello tedesco, che non a caso è fuori da Euronext. Quindi ha gli strumenti per difendersi: non a caso Luxottica, che era una delle principali società della borsa di Milano per capitalizzazione, dopo la fusione con Essilor è solo quotata a Parigi.
Se vincesse il centrodestra, con la pochezza di idee e di volontà per il tagliadebito e lo sviluppo del mercato borsistico, il pericolo è che si finisca ai margini del disegno europeo. Se vincesse il centro sinistra (che al momento non c’è), certamente più europeista, ma comunque senza idee, almeno espresse, per il taglio reale del debito e per la creazione di un mercato dei capitali adeguato al rango di terza economia d’Europa, il rischio è egualmente di finire sotto inchiesta dall’Europa. E l’Italia non può progredire fuori dall’Europa o ai suoi margini senza avere un’autonomia finanziaria perché non ha un vero mercato dei capitali. Nelle sue dichiarazioni all’evento MilanoParigi Capitali di pochi giorni fa, il ceo di Euronext si è lasciato sfuggire una battuta che suona così: varie borse locali per le piccole e medie aziende e una borsa centrale ad Amsterdam. No, Caro Monsieur Stephane Boujnah, né all’Italia ma neppure all’Europa una tale organizzazione dei mercati borsistici può andar bene. L’Italia è la terza economia europea e anche nel mercato borsistico deve avere analoga dignità e rango. Per questo la futura maggioranza e la futura opposizione devono svegliarsi. ItaliaOggi non smetterà di denunciarlo.