Corriere della Sera, 23 settembre 2022
Eva cantarella si racconta
Elegantissima, Eva Cantarella porta i suoi 85 anni con la stessa leggerezza delle collane colorate che indossa e del misto lino bianco che abbina alle scarpe di corda. Che fascino, professoressa. «Una volta, forse. Eravamo eleganti davvero a Milano. Ma lo sa che io e Miuccia (Prada, ndr) siamo andate a un mucchio di feste assieme?»
Una generazione di donne sfolgoranti. Belle e consapevoli, forse controcorrente.
«Può dirlo forte. Papà era un grecista, da Messina andò a insegnare a Napoli e poi Milano. Lo seguimmo. Un giorno dissi in casa che volevo fare Legge. Mamma sgranò gli occhi: “Ma non puoi, alcuni giorni al mese tu stai male”».
Pochissime donne a Giurisprudenza, alla Statale?
«Una manciata. E peraltro fino al 1963 le donne non potevano entrare in Magistratura. Figuriamoci ambire a una cattedra universitaria. E infatti, non appena mi laureai, nel 1961, era libero un posto di assistente ma mi venne candidamente detto che sarebbe stato assegnato a un collega, perché tanto “Eva, tu ti devi sposare”. Si rende conto?».
Nasce qui la sua allergia diffusa al matrimonio?
«Forse. Ma quando conobbi Guido Martinotti a tutto pensavo fuorché a sposarmi. Lui era sociologo, affascinante, arguto. Ci siamo lasciati e ripresi ma allora si faceva così. La fedeltà era una scelta, si discuteva dei valori e, soprattutto, si faceva l’amore. Io adesso vedo una certa ritrosia da parte dei più giovani nei confronti del sesso: si fanno un sacco di problemi, boh».
Ma alla fine con Martinotti vi siete sposati, no?
«Ho tentato di tutto fino all’ultimo per evitarlo. Andai anche da un parente vescovo dicendo che Guido, in gran segreto, non era credente, che era sconveniente sposare un “infedele”. Non mi credette. E la mia suocera la ebbe vinta».
Che matrimonio è stato?
«Divertente, allegro, senza figli. Lo seguii a Berkeley, dove lui aveva vinto una borsa di studio. Arrivammo poco dopo che avevano ucciso Kennedy. Fu nella biblioteca di quella università che mi appassionai al diritto greco. Lì ho incontrato Allen Ginsberg e Gregory Corso. Una stagione felice, ma sentivo di dover intraprendere una strada mia».
E infatti arrivarono i primi incarichi accademici a Milano, siamo alla fine degli anni Sessanta, vero?
«Ma in parallelo scrissi due libri che fecero scandalo, L’ambiguo malanno e Secondo natura. Il primo era un trattato sulla discriminazione millenaria delle donne e il secondo osava parlare della bisessualità nel mondo antico».
E che cosa accadde?
«Accadde che mi spedirono a Camerino, Pavia e Parma. Quindici anni prima di poter tornare a Milano. E allora non c’erano mica i treni veloci. Ricordo che un pezzetto di strada fino a Camerino lo dovevo fare a bordo di un camioncino che consegnava i giornali, quando tornavo da Milano. Il punto era che parlare di certi temi, anche nella liberale e apertissima Milano era complicato. Specie se eri donna».
Meno male che c’era l’amato Guido.
«Ma poi divorziammo».
Ah.
«Ma non perché non ci amassimo più, anzi. Divorziammo per posizione ideologica, per difendere la legge sul divorzio quando fecero il referendum abrogativo nel 1974. Ci sembrò un’assurdità, un insulto alla libertà di tutti. Lui nicchiava, ma io lo convinsi: “Guido dobbiamo farlo”. Alla fine prendemmo due testimoni, dicemmo che eravamo separati da due anni e ce la facemmo. Manco a dirlo, io e Guido continuavamo a vederci. Ogni tanto io gli dicevo “Ma non sarebbe ora di risposarci?”. Lui si mise a nicchiare anche quella volta. Alla fine però ci risposammo».
Formidabili quegli anni.
«Pensi che nella parentesi in cui eravamo “divorziati”, di nascosto dai rispettivi amanti ci vedemmo in Grecia. Ci scoprirono: che scenate!».
Come si vivevano gli anni della ribellione a Milano?
«Io li ho vissuti certamente da un’angolazione particolare, cioè da donna che frequentava circoli intellettuali, ma c’era di tutto. E di ogni colore. Mario Capanna e Ignazio La Russa. Ma c’erano anche uomini come Francesco Micheli che in testa avevano altro, cioè si stavano costruendo una carriera basata sì, sulla finanza, ma anche sull’arte e sulla cultura. Era questo il tratto caratteristico di molti miei coetanei: ogni professione era sempre accompagnata da un profondo interesse per le arti. Medici, avvocati, banchieri: il mito del palco alla Scala o del biglietto al Piccolo era parte della formazione. Molti erano infervorati dalla politica: c’era pure Achille Occhetto, che noi prendevamo in giro dicendo che ogni mattina baciava la bandiera rossa del traffico. C’era Carlo Basso, il figlio di Lelio, un amico».
Alla fine per Eva Cantarella era arrivata la cattedra a Milano. Lei è stata la prima professoressa a Legge?
«No, credo che prima ci sia stata Luisa Riva Sanseverino, ma guardi, non che è la mia memoria sia perfetta. Quel che è certo è che ho insegnato Istituzioni di diritto romano e di Diritto greco fino al 2010, ho scritto numerosi libri di divulgazione. Ora, molti in Italia storcono il naso davanti a questa parola, ma io sono convinta che se si facesse migliore divulgazione, sia la scuola che il mondo del lavoro starebbero meglio».
Lei frequentava i circoli femministi di Milano?
«No, al massimo andavo a qualche riunione di autocoscienza. Penso questo: il femminismo è stata l’unica vera rivoluzione riuscita in Italia, perché ha cambiato – almeno in parte – sia gli uomini che le donne. Io non dimenticherò mai che cosa era l’Università Cattolica ai miei tempi: si entrava con il grembiule, c’era un rigore insostenibile. Oggi non è più così, però manca un tassello: il mondo rimane degli uomini e, al massimo, le donne vengono inserite, “accettate”».
Nella mitologia greca Pandora, essere femminile, è il simbolo dell’origine di tutti i mali. Crede che ci sia ancora molta strada da fare?
«Il mito di Pandora è una sciagura che la dice lunga su come ci hanno viste per millenni. Aristotele diceva che una donna non possiede il logos. Oggi per fortuna molte battaglie le vinciamo, ma ora tocca a quelle più giovani».