la Repubblica, 23 settembre 2022
Le galline che hanno capito tutto
Gli animali, anche per la loro magnificenza poliforme (dalla balena alla coccinella, e lo sterminato campionario intermedio) sono vita allo stato puro. Esattamente come noi nascono, muoiono, si nutrono, si riproducono, dormono, sognano, lottano, provano paura, esultano. Al tempo stesso sono, della vita, la rappresentazione più antiretorica, più asciutta, più indiscutibile (diciamo così: esente da dibattito) perché non parlano, non hanno modo di vestire di significato «la natura ineluttabile e disperata delle cose», come scrive, a pagina 80 del suo bel romanzo d’esordio, Quattro galline, l’americana del Minnesota Jackie Polzin. Le quattro galline, ciascuna delle quali ha un nome e una individualità specifica, sono le protagoniste effettive di una trama che la loro nutrice, io narrante, ad ogni pagina potrebbe, a buon diritto, far virare definitivamente su se stessa e sulla propria vita. Nella quale galleggia, ingombrante, desolante, il relitto di una gravidanza fallita. Ma non lo fa. Non vuole farlo.La grande forza del libro sta nella risolutezza con la quale Polzin tiene sul palcoscenico, quasi costantemente, le sue galline, come per farsene schermo, per evitare cedimenti sentimentali, cadute retoriche, per conservare pudore alla sua scrittura.A partire dal titolo, si potrebbe pensare che la scelta della gallina, come animale- schermo, sia di tipo“comico”. Le galline, si sa, mettono di buon umore. Dispongono il pubblico a una simpatia pregiudiziale. Niente di più sbagliato. Anche se la scrittura di Polzin è spesso carica di ironia (altra forma di pudore), la dignità delle galline, direi anzi la serietà delle galline, non è mai in discussione. Il disegno della loro morfologia e del loro comportamento ha precisione etologica e forza letteraria, gli avvenimenti del pollaio non solo non sono “minori” rispetto a quelli della casa degli uomini, ma ne sono il contrappasso costante. Se quella che si narra è una tragedia – e per molti aspetti lo è – non è mai stabilito se siano le galline a fare la parte del coro di fronte alle vicende umane, o viceversa. Le pagine più intense del libro attingono indifferentemente a quanto capita nella casa e a quanto capita nel pollaio.Ogni buon naturalista è portato a pensare che il rispetto per le bestie, non meno esposte di noi ai rovesci della sorte, sia parte integrante del rispetto del dolore e dell’incompletezza della condizione umana, che della natura è parte. In questo senso, non per via “ideologica” ma letteraria, nel libro c’è un’empatia che sorprende,e sovente commuove, tra la protagonista donna e le protagoniste galline. L’uovo ne è il fin troppo evidente tramite, il misterioso e impetuoso farsi, nel ventre femminile, della nuova vita. Oggetto fragile e al tempo stesso invincibile, “sacro” eppure (grazie alle galline) quotidiano, non solenne, maneggevole, che nel libro fa capolino in molte pagine. Il suo destino commestibile non viene mai messo indiscussione dall’autrice, e anzi se ne parla con naturalezza e complicità, senza l’ombra di complessi di colpa.Fa parte anche questo dell’asciutta visione delle cose che Polzin offre al suo lettore, facendolo sentire sempre ben protetto dalla finzione edulcorata con la quale troppo spesso si parla degli animali. Non è un libro vegano – voglio dire – e la natura, per quanto nella versione miniaturizzata di un piccolo giardino domestico, viene percepita in tutta la sua potenza, il suo fascino, la sua durezza, dal gelo alla folgore, dalla malattia alla predazione. Il procione e il falco sono in costante agguato attorno alle quattro galline: no, la natura non è vegana. Essendo le galline, nel folto novero delle bestie, tra le meno “umanizzabili” (cane, gatto, lupo, agnello, maiale, volpe, asino, perfino il corvo hanno avuto, nel casting zoologico della letteratura, cento volte più spazio), merita una menzione, anche per risarcimento di tanta disattenzione, la perfetta definizione che Polzin traccia dei polli “prodotti” negli allevamenti intensivi, «le cui vite non hanno più alcuna somiglianza con la vita». Le galline di questo libro sono, al contrario, persone, hanno un nome e una storia individuale, che esistano o scompaiono, che stiano bene oppure male, non è cosa irrilevante. Anzi: è il motore della trama. Non viene spesa una sola parola per smentirne la fama di “stupidità” (che ogni buon etologo, in realtà, saprebbe smentire), ma molto viene detto a proposito dei loro desideri, delle loro paure, della loro costante esposizione al pericolo; e della vigilanza necessaria per assisterle, compresi certi risvegli notturni per controllarne l’incolumità, o la resistenza alle intemperie. In questo prendersi cura, e preoccuparsi, e dispiacersi, e proteggere, e infine compatire, il romanzo offre l’appiglio di una consolazione di fronte alla «natura ineluttabile e disperata delle cose». Non è una consolazione “filosofica”, è una consolazione operativa, concreta: dare da mangiare, pulire, riscaldare, raccogliere le uova. L’uovo, per il vero allevatore, non è un prelievo rapinoso.È il suggello di una simbiosi millenaria. Si vive, si gioisce e si patisce sotto lo stesso cielo, nello stesso grande pollaio.