La Stampa, 23 settembre 2022
Rinascimento, quando la cucina determinava lo status
Cinquecento, ovvero il Rinascimento. L’epoca d’oro della cultura italiana in tutte le sue espressioni – inclusa la cucina. Due sono i nomi di spicco: Cristoforo Messisbugo, che lavora alla corte di Ferrara e nel 1549 pubblica un importante testo, Banchetti, composizioni di vivande; Bartolomeo Scappi, cuoco di due papi e autore di un libro di cucina a dir poco monumentale (Opera, 1570) che riassume saperi e pratiche di un Paese che sulle carte geografiche non c’è, ma ha una riconosciuta personalità culturale grazie all’opera di artisti, letterati, musicisti – e cuochi.Voglio dire che se un’Italia politica all’epoca non esiste, esiste però un’Italia della cultura, dei modi di vita, dei gusti. Di questa cultura le pratiche alimentari sono parte essenziale, e Scappi ne è l’interprete perfetto. Il suo è un ricettario veramente italiano, che riunisce e mette a confronto le tradizioni locali in tutta la loro varietà. Ma attenzione, questa Italia della cucina non è la somma delle realtà locali, bensì la loro moltiplicazione: incontrandosi, interagiscono e si accrescono.Spesso si pensa al Rinascimento come a un momento di svolta radicale rispetto al Medioevo, nei modi di pensare e di fare. Ma la cultura rinascimentale ha un solido aggancio con la tradizione medievale, di cui riprende, sviluppa, perfeziona abitudini e invenzioni, per esempio quella delle torte ripiene, vero must dell’epoca. La tradizione medievale voleva la crosta consistente, dura – forse non si mangiava neppure. La cucina rinascimentale la sostituisce con pasta sfoglia, modificandone profondamente gusto e appetibilità.Anche altri aspetti della cucina italiana del Cinquecento mostrano continuità e discontinuità rispetto al Medioevo. La carne, secondo la tradizione medievale, è rappresentata come valore di primo piano nella dieta signorile. Ma la preferenza a poco a poco si è spostata dalla selvaggina grossa (cervi, cinghiali, orsi, simboli di una società di guerrieri cacciatori) verso carni più delicate: i volatili, sia selvatici sia domestici.Il cambiamento dei gusti rivela una trasformazione culturale e politica: la nobiltà cortese non ama più rappresentarsi come ceto di guerrieri ma rivendica raffinatezza di costumi e saper vivere. L’età dei principi mecenati, protettori di artisti e letterati, si attaglia perfettamente a questa scelta. Intanto, fra i quadrupedi si dà ormai la preferenza a quelli domestici. In Italia si afferma il gusto della carne bovina e in particolare del vitello o meglio ancora della vitella.Nei ricettari rinascimentali, come già nel Medioevo, la presenza della carne è limitata dal calendario liturgico, che per un terzo dei giorni dell’anno impone un mangiare “di magro”, ovvero senza carne. Giorni in cui il pesce diventerà protagonista e l’olio, o il burro, sostituiranno il lardo. Rispetto alla cucina romana antica, che privilegiava il pesce di mare, nel Medioevo si valorizzarono maggiormente le risorse locali offerte dai fiumi, dai laghi, dalle paludi. Il pesce d’acqua dolce conquista il primato nei ricettari di cucina e così è ancora nel Rinascimento.Se ora dovessi indicare l’ambito gastronomico di maggiore originalità nell’Italia del Rinascimento, senza dubbio indicherei – anche qui in continuità con la tradizione medievale – la sapienza nel trattamento delle verdure: è in questo campo che la cucina italiana raggiunge vertici qualitativi unici, differenziandosi dagli altri Paesi europei e rivelando incroci inattesi fra cultura di élite e cultura popolare.Inattesi, questi incroci, perché la cultura medievale e rinascimentale fu sempre attentissima a segnalare le differenze di classe tramite i consumi alimentari. Da questo punto di vista, le verdure erano individuate senz’altro come cibi poveri, “contadini”. Questo valeva in Italia come ovunque in Europa. Ma i ricettari italiani, sorprendentemente, quei cibi contadini li accolgono a mani aperte. A chiarire la destinazione signorile della vivanda ci pensano le strategie di accostamento e le modalità d’uso. Il prodotto umile è nobilitato nel momento stesso in cui entra come semplice ingrediente in vivande di pregio, o si arricchisce con prodotti di lusso come le spezie (o lo zucchero, di gran moda nel Cinquecento, nuovo “segno” della distinzione di classe: non c’è quasi ricetta di Scappi che non ne prescriva l’impiego). Anche le insalate sono proposte a ogni banchetto assieme a carni e pesci, e anche questa è una tipicità italiana.Anche la polenta e le minestre, cibi poveri che facilmente immaginiamo sulla tavola dei contadini, compaiono nei ricettari del Cinquecento, impreziositi di spezie, zucchero, carni pregiate che però non occultano l’impronta popolaresca di questa cucina. Quanto alla pasta, l’uso più normale nei ricettari di corte è di accompagnarla alla carne come una sorta di contorno, a “coprire” (è il verbo usato da Scappi) capponi o anatre o galline. Si possono allora disegnare due tipologie d’uso socialmente diversificate: la pasta come contorno, nella cucina delle corti aristocratiche; la pasta come piatto a sé, nella cucina popolare. Usi diversi, oggetti gastronomici condivisi.Questa capacità di mettere a frutto la cucina popolare, i cereali, le verdure, è stata la più originale caratteristica della cucina italiana tra Medioevo e Rinascimento. Questo è stato il principale e più originale contributo dato dall’Italia alla cultura gastronomica europea. Questo è anche il motivo per cui quei ricettari (Messisbugo, Scappi, tanti altri) sono rimasti vivi nella cultura italiana, spesso alla base di ricette tuttora popolari, di gusti tuttora presenti