il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2022
Storia dei fratelli La Russa
C’è un precedente. Il 13 gennaio 2007, nella basilica di Sant’Ambrogio si celebrano i funerali di Nico Azzi, fascista e bombarolo, in un tripudio di svastiche e croci celtiche. A fare il saluto romano, quel giorno, è Ignazio La Russa, che tre mesi dopo, il 25 aprile 2007, dichiara che lui il giorno della Liberazione lo celebra al Campo X di Musocco, rendendo omaggio ai caduti della Repubblica di Salò (alleata dei nazisti e massacratrice di partigiani). Oggi, 15 anni dopo, a salutare romanamente il camerata Alberto Stabilini detto “Pilotone”, rispondendo “Presente!” al triplice appello, è il fratello Romano La Russa.
Si fa, ma non si dice (più). L’orgoglio fascista, ieri esibito in pubblico, oggi è nostalgia privata. Ma sopravvive, è storia di famiglia. È il Dna di Ignazio diventato senatore della Repubblica, di Romano assessore alla Sicurezza di Regione Lombardia, di Giorgia Meloni candidata dai sondaggi presidente del Consiglio. Storia di famiglia perché il padre di Ignazio e Romano è quell’Antonino La Russa senatore del Movimento sociale che fu padrino degli affari eccellenti di alcuni siciliani che a Milano hanno fatto tanta strada (con qualche inciampo), Michelangelo Virgillito, Raffaele Ursini, Salvatore Ligresti. Storia di famiglia perché Ignazio abita in un palazzo milanese che di notte sembra uscito dalla Gotham City di Batman: in quell’edificio aveva sede il Popolo d’Italia, il giornale diretto da Benito Mussolini. La leggenda dice che La Russa viva proprio nell’appartamento che fu del capo del fascismo e abbia recuperato, in gran segreto, la testa del Duce che un tempo troneggiava nell’atrio del palazzo. È l’album di famiglia. In quello di Ignazio e Romano ci sono le immagini dense di fumo (non è nebbia: lacrimogeni) di un giovedì nero milanese. Era il 12 aprile 1973 e Ignazio, responsabile provinciale del Fronte della gioventù, è tra gli organizzatori di una manifestazione della destra milanese destinata a restare nella storia: quella in cui muore, dilaniato da una bomba a mano, l’agente di polizia Antonio Marino, 22 anni. Oggi sappiamo come nacque, quel giorno di guerra in città. Cinque giorni prima, il 7 aprile 1973, era programmata una strage. Nico Azzi, il fascista onorato dai La Russa ai suoi funerali in Sant’Ambrogio, si era fatto vedere con una copia di Lotta continua ben in vista sul treno Torino-Genova-Roma. Poi era andato in una toilette a innescare una bomba che doveva essere rossa (come quella di piazza Fontana) e doveva fare morti, tanti morti. Era già stata organizzata la risposta: una grande manifestazione a Milano contro la violenza rossa, convocata dalla Maggioranza silenziosa di Adamo Degli Occhi e Massimo De Carolis, con il sostegno del Msi e dei giovani del Fronte di Ignazio La Russa. La piazza moderata e anticomunista era stata convocata per chiedere ordine, disciplina, forse lo stato d’emergenza. Invece il meccanismo s’inceppa. Nico Azzi sbaglia l’innesco della bomba sul treno e resta ferito. Arrestato, si scopre che è del gruppo La Fenice, della galassia di Ordine nuovo. A quel punto, nella notte tra il 7 e l’8 aprile parte il contrordine per i gruppi neri pronti in Veneto a compiere altre stragi “rosse” già programmate. Il programma si blocca: le altre bombe sarebbero state troppo facilmente collegate con quella di Azzi. Anche la manifestazione-risposta in calendario a Milano va in tilt. La Prefettura proibisce il corteo e il previsto comizio di Ciccio Franco, capo dei “boia chi molla” di Reggio.
I neri di Ordine nuovo scendono lo stesso in piazza: armati con molotov, mazze ferrate, coltelli, pistole; e tre bombe a mano Srcm procurate proprio da Nico Azzi. La destra in doppiopetto rimane spiazzata, ma non vuole o non può fermare i neri armati. I dirigenti missini Franco Servello e Francesco Petronio, con Ignazio La Russa, marciano verso la Prefettura per protestare contro il divieto del corteo. Intanto in città si scatena l’inferno. In via Bellotti lanciano due bombe Srcm che uccidono l’agente Marino e feriscono tredici poliziotti e un passante. Vengono arrestati 150 manifestanti. Tra questi, Romano La Russa e il cognato Alberto “Pilotone” Stabilini. Ignazio La Russa è ricercato, ma riesce a non finire con il fratello a San Vittore. In seguito, il Msi scarica i neri di Ordine nuovo e indica i due camerati che avevano esagerato, Maurizio Murelli e Vittorio Loi, che si assumono tutta la responsabilità e scagionano i missini con cui pure avevano preso accordi. Del programma stragista già preparato, con la regia della pianificazione mista, militari-civili, della Rosa dei venti, viene realizzata solo un’azione: l’attentato al ministro dell’Interno Mariano Rumor. Un finto anarchico, Gianfranco Bertoli, la mattina del 17 maggio 1973 lancia una bomba davanti alla Questura di Milano, manca il ministro ma uccide cinque passanti. L’album di famiglia dei fratelli La Russa ci regala un’ultima immagine: Ignazio capopopolo che arringa la piazza fascista a Milano, nei titoli di testa di Sbatti il mostro in prima pagina, regia di Marco Bellocchio, 1972.