la Repubblica, 22 settembre 2022
Le ultime gare. Com’è difficile dire basta
Il paese delle ultime cose è un luogo triste, adatto all’addio, anche perché quelle cose sono quasi sempre le penultime, o le terzultime. Oppure erano davvero le ultime ma non lo sapevamo. Il campione non riesce a separarsi dal suo essere più profondo, non può, ogni ritiro è una piccola morte. Roger Federer difficilmente sfuggirà alla regola.
Ci sono addii scenografici, come quelli di Del Piero e Totti, e altri irriconoscibili: di Marco Van Basten non si poteva sapere che non lo avremmo più visto in campo, e Paolo Maldini ancora aspetta la festa di chiusura col Milan. Anche perché, certi giorni, feste non sono. C’è tanta malinconia, spesso è l’incapacità di andarsene e allora il campione ritorna ma mette tristezza, forse era meglio di no. Esistono contorni difficili da definire. L’ultima gara di Michael Schumacher è stata la sua ultima vittoria in carriera, sulla Ferrari, nel gran premio di Cina del 2006? Oppure quella del 2012, in Brasile, primo Button, titolo a Vettel conSchumi sulla Mercedes, quando arrivava sempre dietro? Anche il più grande pilota di tutti i tempi non sapeva stare fermo, salutò, tornò e non era più lui. Chiuse ufficialmente con un settimo posto che non ricorda nessuno.
Quanto sono tragici, insostenibili per la memoria, gli ultimi scatti di Marco Pantani sulla salita del Toce, verso la cascata dove chiuse la tappa più lunga del Giro del 2003. Il Pirata partì una, due, tre volte ma senza fare il vuoto: quello, l’aveva dentro. Marco morì in solitudine, otto mesi e mezzo più tardi, in quella pensione davanti al mare di febbraio. Andarsene intristisce, a volte con un tocco di grottesco. Diego Maradona chiuse giocando un Superclásico tra Boca e River, il 25 ottobre 1997, si presentò allo stadio in compagnia del suo preparatore atletico che si chiamava Ben Johnson. «Il doping? Io so solo che Ben è stato l’uomo più veloce del mondo». Giocò quasi da fermo, Diego, quella volta, e solo per un tempo, passando quasi sempre il pallone al compagno più vicino.
L’addio può essere un pozzo, un raptus, come la testata di Zidane a Materazzi, oppure un contropiede, come quando Platini chiamò tutti nello spogliatoio dopo Juve-Brescia, era il 1987, versò spumante nei bicchieri di plastica e disse «la chiudo qui». O come quando Boniperti consegnò gli scarpini al magazziniere esterrefatto, «tienili tu, a me non serviranno». E quando, il 14 giugno 1998, Michael Jordan inventò the last shot che consegnò il titolo ai Bulls, doveva chiuderla lì, dentro la cornice del mito. Invece smise, poi tornò, per un nuovo addio, ma imperfetto: il 16 marzo 2003 quando entrò in campo con la maglia dei Wizards contro i Philadelphia 76ers, l’allenatore avversario Larry Brown ordinò ai suoi di fare subito fallo su Jordan per mandarlo in lunetta: due su due a 2’35” dalla fine, peccato che l’ultimo tiro Michael l’avesse scoccato cinque anni prima.
L’addio può essere plastificato e sintetico come una partita commemorativa, un circo Pace e Bene. Per salutare Pelé, nel 1977 i Cosmos allestirono un’amichevole a New York contro il Santos e il re indossò la maglia di entrambi i suoi club, giocando un tempo per parte. Segnò su punizione con una stangata di destro, lo abbracciarono, pianse, ma almeno smise una volta sola.
La grandezza non è quasi mai proporzionata al senso dell’addio. L’ultima corsa di Fausto Coppi fu il trofeo Baracchi del 1959, meno di due mesi prima di morire: in coppia con Bobet arrivò a oltre 5 minuti da Baldini e Aldo Moser. Ma l’ultima vittoria in una corsa in linea fu il Giro dell’Appennino del 1955, Fausto arrivò da solo a Pontedecimo e nessun braccio alzato. Anche se, tecnicamente, salì in bici per l’ultima volta a Ouagadougou il 13 dicembre 1959, nella kermesse africana che gli costò la vita. Fu 2° dietro Anquetil, si prese la malaria, morì il 2 gennaio 1960. Il funerale sul colle di Castellania sembrava una tappa del Giro, con la folla ai bordi e lui nel mezzo, che saliva in vetta tra la neve.
L’addio è materia liquida. Quello di Gigi Buffon non ci sarà mai, perché c’è già stato troppe volte: due con la Juventus (2019 e 2021), una col Psg, nessuna con la Nazionale, con il Parma si vedrà. Eterno il campione, eterna l’incapacità di smettere. Fu diverso per Valentino Rossi: il suo addio in moto durò un anno intero, ma poi basta. Furono una manciata di secondi quelli di Federica Pellegrini a Riccione, negli ultimi 200 stile della vita, le lacrime in piscina si confondevano con l’acqua ma le sue si vedevano benissimo.
L’ultima gara di Pietro Mennea fu la batteria di eliminazione ai Giochi di Seul ’88: portabandiera, arriva quarto, è la quinta Olimpiade. Prima del colpo di pistola dello starter, il telecronista Paolo Rosi riepiloga la carriera dell’immenso campione, ben sapendo che sta per chiudersi un’epoca. La voce un poco gli trema.