la Repubblica, 22 settembre 2022
La paura, l’ultima arma di Putin
«La forza è l’unica fonte di legittimazione per Putin in Russia, se perde la prima, la seconda verrà azzerata». Le parole di Abbas Gallyamov, ex “ghostwriter” del capo del Cremlino, offrono una preziosa chiave di lettura su quanto sta maturando a Mosca.
L’indebolimento di Putin ha tre genesi differenti. La prima e più evidente è militare: lo smacco subito con la recente offensiva ucraina evidenzia quello che un rapporto dell’intelligence britannica definisce «i seri danni alle forze convenzionali russe del Distretto militare occidentale incaricate di fronteggiare la Nato». Unità di élite come la Prima Guardia Corazzata hanno subito «perdite pesanti» e, secondo Londra, «serviranno anni per ricostruire queste capacità militari». Ciò significa che, dopo sei mesi di campagna ucraina, l’esercito russo ha perso la capacità di fronteggiare la Nato sul fronte Ovest.
La seconda fonte di vulnerabilità è economica perché le sanzioni stanno producendo effetti pesanti sul pil russo, come il Fmi documenta, spingendolo in un territorio negativo destinato ad aumentare con il passare dei mesi. E poi c’è la terza fonte, quella che – secondo le valutazioni alleate – ha più sorpreso Mosca, ovvero «l’impatto dell’incontro con Xi Jinping a Samarcanda», quando le «critiche e preoccupazioni» espresse, in maniera personale e diretta, dal leader cinese sulla guerra in Ucraina sono state di entità tali da obbligare Putin ad ammetterle in pubblico. Aggiungendo l’indebolimento politico a quelli militare ed economico. L’impatto in Asia Centrale è stato immediato: l’Armenia, alleata di Mosca, ha chiesto aiuto a Washington per arginare gli azeri in Nagorno-Karabakh; fra tagiki e kirghizi la precaria convivenza lungo il confine garantita dai russi è degenerata in scontri a fuoco; Pechino ha offerto garanzie all’integrità del Kazakhstan; il leader turco Erdogan, annusando il declino di Putin, si è spinto fino a prevedere che «questo è il momento per negoziare con lui». Con un linguaggio talmente brutale da suonare offensivo alle orecchie del Cremlino.
«A Samarcanda l’Asia Centrale ha capito che l’equilibrio Xi-Putin è cambiato, ed ora Putin è l’alleato più debole», afferma una fonte diplomatica da Pechino. Ma non è tutto perché Mordechai Kedar, veterano dell’intelligence militare israeliana, aggiunge: «La quasi totalità delle vittime russe in Ucraina sono musulmani provenienti dalle repubbliche asiatiche della Federazione, dove monta lo scontento, Putin rischia rivolte locali capaci di pregiudicare l’unità del Paese». Daqui la previsione di Michael Mc-Faul, ex ambasciatore americano a Mosca: «Putin ha commesso gravi errori di calcolo in Ucraina, è l’inizio della fine del putinismo in Russia». Ma è proprio questo scenario che, secondo una testimonianza del direttore della Cia William Burns resa a inizio mese al Congresso di Washington, può spiegare l’accelerazione di Putin sul fronte delle minacce nucleari. «Il presidente russo ritiene che solo se si manterrà in vantaggio fin dentro l’inverno potrà riguadagnare l’iniziativa» è la tesi di Burns, secondo cui «la scelta di Putin ora è di essere più duro con ucraini, europei ed americani» andando all’offensiva contro tutti gli avversari. Aumentando i costi dell’energia per piegare gli europei, le minacce militari per intimorire la Nato e ricorrendo ai referendum di annessione per far capire a Kiev che non riavrà mai i territori perduti.
In questa cornice, il ricorso alla minaccia nucleare viene spiegato da Ivo Daalder, ex ambasciatore alla Nato, con la “dottrina della escalation”, ovvero «essere credibile nel prospettare un attacco nucleare per poi negoziare la de-escalation» ottenendo qualcosa di valore in cambio. È una strada ad alto rischio perché tale “dottrina”, secondo fonti diplomatiche a Bruxelles, può arrivare ad includere «l’esplosione di un ordigno tattico» al fine di spingere la controparte a concrete concessioni.
Iulia-Sabina Joja, capo del programma Mar Nero alla Georgetown University di Washington, aggiunge: «La minaccia nucleare segue l’occupazione della centrale di Zaporizhzhia ed è una maniera per includere anche il pericolo più grande nella dottrina che Valery Gerasimov espose nel 2003 per sostenere che la migliore strategia per la Russia è il caos, la guerra condotta in maniera ibrida usando ogni mezzo possibile per evitare il confronto diretto con l’Occidente». «Ma per le nazioni nucleari valgono regole che non si applicano a nessun altro», osserva Alain Minc, già consigliere di più inquilini dell’Eliseo. Anche l’ex Segretario di Stato, Henry Kissinger, la pensa – non da oggi – in modo simile e per questo non perde occasione di far sapere all’attuale amministrazione Usa che la strada per disinnescare il pericolo-Putin passa per Pechino, tentando di far convergere Biden e Xi sul comune interesse ad impedire che la sconfitta in Ucraina possa degenerare in conflitto atomico o nell’altrettanto inquietante scenario dell’implosione della Federazione russa, che porterebbe 6mila armi nucleari nelle mani di leader tribali, dal Tatarstan alla Jacuzia.