Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  settembre 21 Mercoledì calendario

Le lettere di Andreotti alla sua Liviuccia


Cara Liviuccia… Molti di coloro che leggeranno queste pagine, al limite anche qualche amico e familiare, si rifiuteranno di accettare che a rivolgersi a sua moglie con questo diminutivo affettuoso, quasi vezzeggiativo, sia stato Giulio Andreotti, la cui immagine pubblica è da sempre prigioniera di un cliché di pieno dominio dei propri sentimenti e delle proprie emozioni. E invece esiste un pacco di lettere, che vanno dal 1946 al 1970, che cominciano con quell’appellativo e che Livia aveva gelosamente occultato e conservato per sé.
Sono lettere che testimoniano di venticinque estati familiari, con la moglie e i figli in vacanza al mare e/o in montagna, e il marito in città a lavorare, più o meno in solitudine. Negli anni Cinquanta era una regola abituale (e un simbolo di status) che le famiglie di buona borghesia si dividessero nel periodo estivo: madre e figli in vacanza, il padre in città, in una più o meno divertita vita solitaria. Mi viene spontaneo ricordare in parallelo la divisione fra noi De Rita, con madre e figli in luglio ad Anzio e poi in agosto a Ortisei, Moena, San Candido, Sappada; mentre per gli Andreotti il luglio era al Circeo, per poi spostarsi in alcune delle località dolomitiche citate, le canoniche Ortisei, Moena, San Candido, ecc.
In quei due mesi le madri diventavano a pieno titolo capi famiglia; i padri, invece, se la famiglia era geograficamente vicina (Anzio o Circeo), arrivavano per il fine settimana; se invece era lontana, si limitavano a scrivere lettere, vista la povertà di altri strumenti di comunicazione quotidiana: il telefono era solo «fisso» e i telefonini erano ancora molto di là da venire.
Non tutti i padri scrivevano (e il mio era fra questi), ma per Andreotti lo scrivere lettere e brandelli di lettere era un imprescindibile modo di stare insieme alla moglie e poi, con gli anni, ai figli. Lo faceva regolarmente, e quasi con un ansioso desiderio di scrivere e far recapitare. Erano quasi sempre brandelli, visto che nel corso dei suoi pressanti impegni (dalle udienze per i contadini del suo paese di origine alle riunioni del Consiglio dei ministri, alle manovre militari in Usa) in lui scattava sempre la voglia di comunicare con la moglie. Prendeva un qualsiasi pezzo di carta, intestata e non, e scriveva poche righe, magari riprese dopo qualche minuto, estraniandosi dall’ambiente circostante, ma volutamente vicino alla realtà familiare, di cui Livia era sostanza e tramite.
Lo scrivere soltanto non gli bastava, subentrava in automatico un’ansiosa, quasi coatta, volontà che le lettere arrivassero a Livia, e allora andava personalmente a «imbucare», a «impostare», addirittura alla «corriera», scrupolosamente informandosi dei relativi orari d’arrivo. Non voleva e non poteva avere ambizioni di letteratura epistolare alla Jane Austen (preferiva anzi lo scarno stile di scrittura dei libri gialli); le lettere servivano solo a trasmettere quel che della vita quotidiana era necessario trasmettere. Quasi un’informazione di servizio per alimentare, anche da lontano, una vicinanza coniugale che si voleva tenere vitale. Sentiva la solitudine, ma sentiva ancora di più l’intima esigenza di mantenere il rapporto di coppia.
Si potrebbe indurre che quelle settimane «da solo» fossero connotate da momenti di malinconia e che quel «cara Liviuccia» esprimesse nostalgia e protezione per la moglie lontana. Ma in realtà il tono di queste lettere è sempre libero e lieve. Spesso iniziano con un «cara Livia», e addirittura una semplice L., altre volte con una selva divertita di appellativi di vario tipo (virtuosa consorte, nobile giovinetta, cara moglietta, moglie in vacanza, ostrica e ostrichetta); ma la sorridente confidenza di cui sono intrise è riscontrabile principalmente là dove è dominante il «cara Liviuccia». Era verosimilmente il loro nome segreto, quello che forse neppure i figli conoscevano, quello in cui, con riservatezza, viveva il carattere del tutto paritario del loro affetto.
Perché, a dispetto delle apparenze e dei vezzeggiativi scherzosi, il loro era (e fin dall’inizio) un rapporto paritario. «Una donna forte chi potrà trovarla?» è l’antica citazione biblica con cui comincia il loro stare insieme, da lui costantemente «ribattuta». Anche qui qualcuno si sorprenderà di trovare in Livia quella «donna forte», tanto la sua immagine pubblica è segnata dal riserbo, dal silenzio, dal quasi mutismo degli ultimi anni; e invece quel chiamarla Liviuccia era la continua riproposizione della saldezza paritaria della loro vita. Chi li ha visti insieme nei loro anni «terribili» (quelli dei processi infamanti), li ha visti sempre in dignitoso riserbo e in convinta difesa, murati nel silenzio e nella solitudine, ma soprattutto «murati insieme». Si capivano e si aiutavano quasi non fossero una coppia ma una cosa sola. Non a caso nelle ultime lettere ai figli («da leggere dopo la mia morte») avrebbe raccomandato loro di voler bene a Livia «perché risentirà della mancanza di un … noioso ma totalizzante impegno di esistenza».
Non si capiscono gli Andreotti se non li si considera paritari fin nella radice storica del loro stare insieme: una coppia come la loro (il cui fidanzamento è datato 27 febbraio 1944, in piena occupazione nazista durante «l’inverno più lungo» di Roma) doveva per forza avere dentro un’illimitata fiducia nel domani e un intimo giuramento di costruirselo. La compattezza paritaria la ritroviamo in tutte le lettere: dalla libertà neppure sottile dell’ironizzare sulla suocera («la Tudina»), cui dedica alcune filastrocche e qualche perfida frase («Livia è ottima perché fortunatamente ha preso tutto dal padre») al riscontro di eguali e forti orientamenti valoriali (basti solo leggere le lettere che si scambiarono commentando le vicende del caso Giuffrè), alla trepida delicatezza di vicinanza comune nel drammatico tramonto della vita di don Giulio Belvederi (era lo zio di Livia, ma Andreotti gli dedicò enorme quotidiana consonanza d’affetto), per finire al compiaciuto sorriso quando i figli si staccano («la loro presenza era un po’ pazzamente piacevole»).
I due si dicono tutto, sovrastati da una confidenza che c’era dall’inizio e che non era solo tenerezza fra loro, ma costante attenzione a gestire insieme la coppia e i figli. Anche da lontano, anche scrivendo brandelli di lettere nelle più stravaganti circostanze. (...)
Nella vita a cerchi concentrici di Giulio Andreotti (da quelli larghi delle missioni all’estero, della politica, del governo a quelli intermedi dei rapporti amicali, a quello stretto del legame con i figli) è molto chiaro che il cerchio centrale, su cui ha costruito la sua vita, è quello coniugale: in un rapporto serio e paritario, ma vissuto in un costante cedimento al sentimento, all’affetto, all’amore (il termine è giusto) per Livia.