La Stampa, 21 settembre 2022
Intervista a Emanuela Fanella
Emanuela Fanelli, quando gioca, va presa sul serio. Per settimane, in decine di sketch, battute, intermezzi per Una pezza di Lundini, il programma di Raidue che l’ha resa popolare (e in cui ha condotto, recitato, scritto i suoi pezzi), ha detto di essere un’attrice del nuovo film di Virzì, e ancora neppure si sapeva che quel film, Siccità, sarebbe arrivato. E Lundini la prendeva in giro, le dava della pazza. E lei, così, faceva due cose: giocava alla mitomania, il male eterno degli attori, che adesso è il male di tutti, e si vaccinava contro la seriosità perentoria della recitazione. Inconsapevolmente, preparava il miglior lancio pubblicitario del film, che non è propriamente il suo debutto al cinema (aveva già recitato in Non essere cattivo di Claudio Caligari), ma l’ingresso ufficiale, con tanto di red carpet, a Venezia, dove il film è stato ammirato e molto applaudito – è stato presentato fuori concorso l’8 settembre, il giorno della morte della regina Elisabetta ed è una coincidenza notevole: Virzì presentò Ovosodo, a Venezia, il giorno della morte di Lady Diana, il 31 agosto 1997).
L’anno scorso i giornali scrivevano che Fanelli era la rivelazione dell’anno, la «maestra tutta da ridere» (ha fatto per dieci anni la maestra elementare): quest’anno il passaggio è «dalla comicità al cinema d’autore». Per lei, in realtà, è tutto fluido, da quando faceva scherzi telefonici con sua nonna.
Venezia l’ha intimidita?
«Ho smorzato la tensione cercando di pensare che fosse la festa per un sogno realizzato: lavorare con Virzì».
E l’aiutino da casa?
«Certo, me lo sono portato. A Venezia c’erano i miei amici e mia sorella, che supervisiona tutto quello che scrivo e ogni tanto mi canta Starman di Bowie, così mi ricordo che potrei sempre finire a Meteore».
Si è sentita a disagio sul red carpet?
«Lo temevo parecchio. Prima di salirci, Monica Bellucci – che fa parte del cast, ndr – mi ha chiesto se fossi agitata, e io l’ho trovata di una dolcezza enorme. Mi ha rassicurata prima ancora che rispondessi. Mi ha detto: “Non ti preoccupare, fai un salutino e un sorrisino ogni tanto”. E così ho fatto, un sorrisino e un salutino ogni tanto, mentre facevo questa incredibile, stupenda passeggiatina».
La Fanelli è Emanuela Fanelli?
«Non sono mai io. Ridere di (quasi) tutto è la cosa che faccio di più, da sempre».
Chi è la Fanelli di Virzì?
«Il personaggio che interpreto ha una delicatezza speciale che la sua famiglia, fatta di individui piuttosto grevi e arricchiti, scambia per stupidità. Io ho sempre avuto la sensazione di avere una specie di inadeguatezza congenita, che invece, forse, era una forma di delicatezza. Paolo Virzì l’ha vista, e me l’ ha fatta tirare fuori. Non avrei mai scritto quella parte per me: nessun attore, per quanto alzi l’asticella, va oltre quello che conosce e sa fare. Solo un bravo regista lo porta più lontano. Io ho sempre voluto lavorare con lui perché credo abbia un talento particolare nello sguardo: è curioso in modo infantile, nel senso puro e bello del termine, osserva gli esseri umani senza giudizio. E coglie nelle persone delle cose che non si vedono ma che sono identiche a un personaggio che lui ha scritto. È per questo che con lui gli attori non recitano il ruolo che uno si aspetta, eppure sono perfetti. Penso alla malinconia di Sabrina Ferilli in Tutta la vita davanti».
È importante sentirsi vicini a quello che si interpreta?
«Tutti siamo vicini a tutto perché, nel profondo, i sentimenti che proviamo sono sempre gli stessi. Interpretiamo esseri umani: il gancio lo trovi sempre in questo, ed è la cosa che ti consente di guardare gli altri in modo più indulgente».
Siamo quello che gli altri vedono?
«Sì, e anche quello che pensiamo che gli altri vedono di noi».
Esiste un punto fisso?
«Spero di no: si cresce e si cambia opinione, e pelle».
Siccità le ha dato una virtù?
«Il coraggio. E poi mi ha fatto sentire piccola. È un film corale: tutti ci siamo un po’ ma nessuno è protagonista. Siamo tutti legati ma non ci incontriamo quasi mai. Quando l’ho visto, in post produzione, mi ha colpita il modo in cui ha restituito come siamo tutti piccoli davanti al grande dramma del nostro tempo, la crisi climatica e, per noi che ci abbiamo lavorato, come siamo tutti piccoli nella cosa grande che è questo film. Il nostro lavoro ci spinge a peccare di narcisismo, invece Virzì ci ha fatti sentire la minuscola parte di una squadra».
Di cosa spera di liberarsi con il suo lavoro?
«Della severità nei confronti di me stessa. Sono sulla buona strada: il mio sogno era che tutti dicessero “Fanelli, che brava persona”. Ora non più».
Come l’ ha scelta Virzì?
«Mi hanno chiamata per dirmelo, io pensavo scherzassero, ma dopo mi ha telefonato lui in persona. Mi ha spiegato il personaggio e poi ho fatto il provino, su Zoom, in lockdown. Apro il pc e mi trovo Virzì collegato che mi chiede di alzarmi e inciampo perché ho le cuffie troppo corte. Niente male come inizio, no?».
Si è mai ribellata al regista?
«A Virzì no, anche perché Siccità è un film difficilissimo: sapeva solo lui cosa voleva raccontare e come».
Lui ha detto che un film lo capisci dopo averlo fatto. Forse.
«Ah beh mi fa piacere!».
Cos’è un film politico?
«Un film che parla del presente. Questo racconta la mancanza totale dell’amore ed è in questo che è politico. E anche speranzoso. Lo riassumerei nella frase di Remo Remotti: «Brutti stronzi volemose bene».
Prima che andasse in onda Marilena Licozzi, la sua mini serie che prende in giro il tic “in quanto donna”, temeva che la massacrassero. E invece è piaciuta a tutti, femministe intransigenti incluse.
«La povera Licozzi parlava per sentito dire. Aveva imparato a declinare al femminile e le volte in cui subiva una discriminazione, non se ne rendeva conto e ci scherzava su. Era lei la maschilista e non i suoi colleghi. Sono una donna e capisco che c’è bisogno di cambiare alcune cose, ma a un certo punto ho sentito che ci stavamo castigando, che stavamo esagerando. Ora invece cominciamo a sorridere, a prenderci in giro. E se una vuole una famiglia, può dirlo senza passare per ancella del patriarcato. I grandi cambiamenti sono come lo scolapasta: trattengono solo le cose principali».
Le piace il desiderio di normalità che abbiamo tutti?
«Molto. E ora mi deve venti euro perché non le ho citato Lucio Dalla. Io rock’n’roll non lo sono stata mai, tranne che sul lavoro: ho lasciato quello stabile per seguire il mio sogno. Ho fatto vincere la bambina che è in me e che dice: dai, giochiamo ancora».
Cosa spera che le donne riescano a ottenere?
«L’abolizione dei monologhi femminili in televisione».