La Stampa, 21 settembre 2022
Nel manicomio dove i bambini non erano matti
Vi ricordate il film Qualcuno volò sul nido del cuculo e l’ebbrezza provata dal gruppo di ricoverati che, evaso dal reparto di un ospedale psichiatrico americano, solca con una barca le onde dell’oceano? La pellicola – oggi un classico della cinematografia che ha conquistato anche i più giovani – all’inizio degli anni Settanta non era stata nemmeno concepita da Miloš Forman (uscì nel 1975) quando una ventina di bambini, rinchiusi nell’ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà a Roma, provò al mare di Ladispoli un sentimento analogo a quello dei “matti” d’oltreoceano. Giovanni afflitto da microcefalia, Anna dallo sguardo perennemente spento, Maria la timorosa, Antonio con la sindrome di Down e tanti altri piccolini colpiti da varie sindromi fecero la loro prima uscita sulla spiaggia di Passoscuro accompagnati da Massimo Ammaniti, neuropsichiatra e psicoanalista destinato a diventare uno dei maggiori specialisti dell’età evolutiva.
Lo studioso, oggi noto a livello internazionale, nella suggestiva autobiografia Passoscuro. I miei anni tra i bambini del Padiglione 8, ci restituisce un ritratto sconvolgente dell’approccio medico alla malattia mentale in quei terribili anni. Il libro, che rievoca l’epoca in cui si cominciava a riflettere sulla necessità di smantellare gli ospedali, come poi verrà fatto a seguito dell’attuazione della legge Basaglia, ci riporta anche al nostro presente e ci spiega pure che quell’inizio rivoluzionario non ha certo esaurito l’impegno sanitario rispetto alla malattia mentale nelle sue varie forme.
Quando Ammaniti cominciò a occuparsi di bambini la neuropsichiatria infantile era ancora condizionata dalla legge del 1904 per la quale persino i piccoli malati potevano essere ritenuti pericolosi per sé e per gli altri. Ammaniti, prima di approdare definitivamente al Padiglione 8, era rimasto impressionato da quegli ambienti dove bambini e ragazzi, con indosso solo dei camici, correvano scalzi strillando o piangendo e dominava l’odore di feci e urine. C’era chi era legato al termosifone o era tenuto fermo con le cinghie al letto e c’era chi si spostava avanti e indietro in modo meccanico, chi si buttava per terra, chi si mordeva le mani e compiva atti di autolesionismo.
Il neuropsichiatra non resistette, abbandonò l’incarico per tornare qualche tempo dopo. Soffiava il vento del Sessantotto e i giovani di sinistra, tra cui il futuro professore, erano pronti ad attaccare l’istituzione ospedaliera seguendo anche le indicazioni del libro di Franco Basaglia, L’istituzione negata, che puntava il dito accusatorio contro quei luoghi di reclusione. Per sopperire ai problemi degli adulti c’erano psicofarmaci ed elettroshock e i medici si consideravano esentati dal prestare attenzione alle storie individuali: «Dalle parole della caposala capii che sotto il lenzuolo era completamente nuda, con i peli pubici tinti di colori diversi», così Ammaniti si ricorda nel codazzo al seguito di un primario al capezzale di una donna considerata “demente”. «Gli psichiatri discussero di fronte a lei della terapia farmacologica e nessuno si interrogò sull’esibizionismo variopinto della ragazza: seduzione oppure mascheratura?».
Con analogo disinteresse ci si occupava dei bambini. Entrato nello staff del Santa Maria della Pietà, Ammaniti tentò di mettere in piedi un sistema di scambi, incontri e attività comuni con i ragazzini, divisi non più per sesso ma per età.
Un altro pregiudizio nei confronti dei fanciulli riguardava la loro limitata capacità di apprendimento. Il neuropsichiatra riuscì a smantellare i preconcetti e a dimostrare che i suoi pazienti non erano irrecuperabili. Alcuni cominciarono a riconoscere il proprio nome e altri impararono a controllare le proprie necessità fisiologiche. I bambini del famigerato Padiglione 8 cominciarono a ritrovare il gusto della vita, sentivano il giradischi, ballavano, facevano fisioterapia e circolavano nel parco. Ebbero incontri più frequenti con i loro genitori spesso assenti, oppressi da sensi di colpa e di vergogna.
Questi piccoli passi in avanti erano cominciati con la gita a Passoscuro e con la scoperta che il sapore del mare era lo stesso della libertà. L’amministrazione provinciale deliberò che bambini e adolescenti minori di diciott’anni non fossero più ricoverati nell’ospedale psichiatrico. Ponendo così termine a un’aberrazione istituzionale e giuridica che durava da decenni. Il libro ci fa capire che c’è ancora molto da fare.
Chi è affetto dalla malattia mentale viene escluso non solo perché vittima di un sistema sociale e sanitario inadeguato. Chi soffre di disturbi mentali non è solo oggetto di emarginazione sociale, è anche imprigionato nelle proprie angosce e nei propri blocchi interiori. Ed è questa una sfida che continua, su cui si lavora e che non è stata ancora vinta.