La Stampa, 21 settembre 2022
Comprendere la storia
Giorgia Meloni stringe l’occhio all’autocrazia di Orban sanzionata dall’Europa e sostiene i nazionalisti spagnoli di Vox nostalgici della Falange; però dice di essere sempre stata d’accordo con le dichiarazioni fatte da Fini a Gerusalemme nel 2003 quando definì il fascismo «il male assoluto»: e nel frattempo dimentica di chiedere scusa per aver sostenuto qualche anno prima l’esatto contrario (intervista a Le Jene, 2004, in cui afferma di non sapere dove si sarebbe schierata nel 1943-45, tra Resistenza e Repubblica sociale). Confusione da tatticismi preelettorali, quando un voto vale più di un’abiura. Enrico IV per la corona di Francia ha sconfessato la propria fede; per Palazzo Chigi si possono ben mescolare le rassicurazioni ai moderati e gli ammiccamenti a Casa Pound. Ma al di là dell’opportunismo contingente, la confusione storica della leader di FdI riconduce ad un problema più profondo: l’Italia non ha fatto i conti con il suo passato fascista. Per questo abbiamo ancora, 80 anni dopo, il peso di un passato rimosso e non compreso. Affermare che il fascismo è «il male assoluto» non significa condannare il fascismo: significa non averlo capito e, dunque, essere vulnerabili alle stesse insidie.
Il passato non passa perché l’Italia non si è mai chiesta perché c’è stato il fascismo, perché è penetrato nelle coscienze di un’intera generazione, perché ha goduto di un consenso di massa (manipolato, condizionato, ma comunque consenso): e non si è mai chiesta chi lo ha reso possibile. A noi, nati e cresciuti dopo la tragedia, è stata proposta l’esecrazione senza appello di quanto accaduto dalla marcia su Roma alla fine del conflitto: sul piano etico è comprensibile, su quello storico è fuorviante. La narrazione maturata dopo il 1945 ha presentato il regime come un dominio violento che ha tenuto soggiogati gli Italiani con il filo di ferro della repressione: liberati dall’oppressore politico con il lavacro di piazzale Loreto e dal suo complice istituzionale con il referendum del 2 giugno, il Paese ha potuto riprendere il cammino forte di una verginità ritrovata. Il fatto è che il fascismo non è stato soltanto delitto Matteotti e leggi razziali: è stato soprattutto controllo della formazione e controllo dell’informazione, per permeare le coscienze con i propri modelli ideologici e comportamentali. I nostri genitori erano balilla, avanguardisti, giovani italiane: imparavano che l’Italia fascista è erede della grandezza delle legioni romane, che la guerra è il momento in cui i popoli dimostrano la propria virilità, che il massimo onore di un uomo è morire anonimo per la grandezza della patria. I cinegiornali dell’istituto Luce e le veline del Minculpop esaltavano oltre ogni limite retorico il Carso e il Piave, cantavano lo spirito guerriero della Nazione, promettevano espansione e riscatto. Il risultato di vent’anni di messaggi monocordi è la reazione popolare al 10 giugno 1940: quando dal balcone di palazzo Venezia il Duce annuncia che “la dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Francia e Gran Bretagna”, la folla esplode nel delirio di un entusiasmo feroce. Non si tratta di una piazza precettata: quel discorso viene trasmesso in tutta Italia dagli altoparlanti dell’Eiar e i giovani reagiscono dovunque con la stessa esaltazione, perché la dichiarazione di guerra è la conseguenza naturale dell’educazione ricevuta.
Tutto questo è responsabilità esclusiva di Mussolini e dei suoi gerarchi? Dov’era la classe dirigente del Paese? Gli intellettuali, i compilatori dei manuali scolastici, i docenti, i giornalisti, i vertici delle forze armate, della magistratura, della burocrazia statale, della Chiesa cattolica? I grandi gruppi di potere economico e finanziario? Vent’anni di fascismo sono stati vent’anni di allineamento che hanno portato il Paese alla deriva della guerra. Ma nel 1945 quella stessa classe dirigente doveva transitare da prima a dopo senza epurazioni e senza traumi, per garantire la normalizzazione del Paese e il suo ancoraggio all’area occidentale.
Per farlo non occorrevano domande scomode, ma una narrazione del passato che presentasse il fascismo nelle sue vergogne, rimuovendo le complicità di cui aveva goduto. Un esempio su tutti. I nostri manuali scrivono che nel 1931 il Duce obbligò i professori universitari al giuramento di fedeltà al regime e tutti ricordano i 13 coraggiosi che rifiutarono di obbedire. Giusto l’omaggio alla memoria dei 13 obiettori per la loro coerenza civica e morale: ma in quell’anno i professori universitari erano 1848, e a fronte dei 13 che hanno detto no, 1835 hanno detto sì («per convincerci – scriverà Norberto Bobbio con grande onestà – il fascismo non dovette neppure battere i pugni: bastò un aggrottar di ciglia»). Questo è il dato statistico qualificante, non le 13 eccezioni.
L’impostazione della memoria in termini assolutori si riflette in ciò che per la vulgata diventa dicibile o indicibile del periodo 1922-1945. Dicibile è ciò che ci ha messo dalla parte giusta della storia, l’antifascismo clandestino prima e la Resistenza partigiana poi, gli uni e l’altra proposti in termini sovradimensionati (come ha scritto Rosario Romeo, «la Resistenza, opera di una minoranza, è stata usata dalla maggioranza degli Italiani per sentirsi esonerati dal dovere di fare i conti con il proprio passato»); indicibile è ciò che ricorda la sconfitta perché parlarne coinvolgerebbe una riflessione sulle responsabilità pregresse (i crimini di guerra commessi nei Balcani e in Grecia, le foibe, l’esodo di 300mila giuliano-dalmati). L’eredità dei conti non fatti con il passato è sotto gli occhi di tutti: polemiche ricorrenti, tra strumentalizzazioni e ignoranza; nostalgie fuori tempo che preferiscono imporre piuttosto che comprendere e far comprendere. Perché un passato rimosso è un passato che non passa e che ritorna, magari nascosto dietro le demonizzazioni del male assoluto. La storia non va né esecrata, né celebrata: la storia va compresa.