La Stampa, 21 settembre 2022
Conte e D’Alema contro Draghi
Nell’archivio dei ricordi di questa legislatura feroce, c’è una fotografia. 2019, settembre inoltrato: Giuseppe Conte arriva alla festa di Articolo Uno. L’avvocato è sopravvissuto a se stesso. È appena nato il secondo governo che porta il suo nome. La Lega di Matteo Salvini è naufragata nel mojito del Papeete, e al suo posto come partner del M5S sono subentrati il Pd e la sinistra. Qualche grillino si lecca le ferite sovraniste. Per esempio, Luigi Di Maio: in quei giorni è ancora il teorico del «mai con i democratici». Il ministro, appena traslocato agli Esteri, ha subìto il matrimonio di interessi con loro. Ad accogliere Conte, in prima fila, ci sono Roberto Speranza e Massimo D’Alema. Il primo è da pochi giorni ministro della Salute. Il secondo sta per diventare uno dei principali confidenti politici dell’allora premier. Conte si sente a casa e dice: «Mi fido del Pd».
Esattamente tre anni dopo, tanti ruoli si sono capovolti. Di Maio corre in un seggio che gli ha lasciato il segretario dem Enrico Letta e se sarà eletto dovrà ringraziare quello che definì «il partito di Bibbiano». Tra Conte e il Pd il divorzio è stato rumoroso. E il primo non si fida più del secondo. L’avvocato, invece, non ha mai smesso di sentire e di confrontarsi con D’Alema. C’è una corrispondenza evidente tra i due ex premier, accomunati dallo stesso giudizio sul Pd, su Mario Draghi e sulla guerra in Ucraina. Quando Conte era a Palazzo Chigi, le telefonate con D’Alema erano già abbastanza frequenti. Ma il legame si è fatto via via più solido, quanto più si allargava la distanza dai democratici e, ancora di più, dal presidente del Consiglio uscente.
C’è anche un po’ di D’Alema dietro l’operazione che ha reso Conte un volto attrattivo per l’elettorato più a sinistra. Sicuramente c’è la sua benedizione, e il suo sostegno. Il presidente del M5S respinge l’idea che ci sia l’ex segretario del Pds dietro la sua strategia, ma non nega di sentirlo. «Certamente condividiamo lo stesso giudizio su Draghi» dice. Un giudizio che si è fatto meno sfumato, più netto e duro. Ecco, per esempio, cosa diceva l’altro ieri al telefono: «Draghi non ha compreso l’emergenza, e dimostra tuttora di essere lontano dalle difficoltà quotidiane dei cittadini. Prendiamo l’ultima conferenza stampa. Ha detto che tutto va bene, perché non siamo matematicamente in recessione? Con le bollette decuplicate?». Conte precisa che su Draghi ha mantenuto e manterrà la sua opinione sempre su un piano puramente politico. «Non ho mai voluto scendere sul personale, anche quando avrei potuto, come sulla famosa telefonata a Grillo». La telefonata in cui, secondo il comico fondatore del M5S, il premier gli avrebbe suggerito di mettere alla porta Conte. A due mesi dalla crisi di governo che ha portato alla caduta di Draghi e al termine di una campagna elettorale che è stata rapida e sorprendente, Conte sente di dover rimettere in ordine i fatti: «Quando lo fermai sulle armi, in primavera, mi disse che volevo la crisi di governo. L’inflazione era già fuori controllo e lui sosteneva che era solo passeggera. Ha sbagliato i calcoli». Concetti che ha ribadito nuovamente ieri in tv, nelle stesse ore in cui Draghi veniva premiato e celebrato a New York, seduto accanto a personalità come l’ex segretario di Stato Usa Henry Kissinger: «Non è con il prestigio, l’abbiamo ormai toccato con mano, e non è con un buon curriculum che si può governare un’emergenza energetica come questa, che adesso sta sfuggendo di mano». Secondo Conte alcune soluzioni, come il tetto al prezzo del gas, andavano indicate molto prima. Alla radice però c’è una debolezza, spiega, che rende fragile tutto il sistema. «Va recuperata la politica, la dialettica tra i partiti e tra le idee». È un argomento che sostiene da mesi e che trova perfettamente d’accordo D’Alema, per il quale Draghi rappresenta «una delle più grandi rovine dell’Italia» proprio perché nel suo paradigma – di tecnico, di uomo dell’eterna emergenza, di salvatore chiamato dai partiti fuori da se stessi – vede l’umiliazione del Parlamento e la morte del primato della politica.
Ma le affinità tra Conte e D’Alema sono anche su altro. I giudizi, quasi sovrapponibili, sulla guerra in Ucraina e sul rapporto di Draghi con gli Stati Uniti: «Completamente acquiescente e pedissequa a quella di Usa e Gran Bretagna» dice l’avvocato. Infine c’è il Pd. Il passato («il campo largo» di Letta inondato di rancore reciproco, sempre a causa di Draghi e della sua caduta), il presente (la lotta all’ultimo voto con il M5S), il futuro, che dipenderà dai risultati di domenica. Se il Pd sarà sotto il 20%, se Conte sfiorerà il traguardo degli ex alleati: cosa succederà? Si apriranno scenari nuovi per la sinistra italiana, sostiene in privato D’Alema: la sinistra dei diritti dei lavoratori, dei poveri, del reddito minimo, della diplomazia sempre e comunque, la sinistra che dice di intravedere «più nell’agenda di Conte che nel Pd». —