il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2022
Franco 126 si racconta
“Faceva il caffè ad Andy Warhol”.
Loredana Bertè?
È una miniera di storie.
Warhol era convinto fosse la barista dello store di Fiorucci, a New York.
Me ne ha raccontate tante. Come quella sulla giacca che le regalò Michael Jackson. È stato un onore duettare con Loredana sul mio singolo estivo, Mare Malinconia. È una figura gigantesca.
Franco126, lei di chi vorrebbe la giacca?
Di Califano. Riusciva a fare poesia scavando nello squallore. Chi mai oggi riuscirebbe a scrivere perle come Io non piango? Che fine hanno fatto i grandi cantautori capaci di raccontare cose che superino una stagione? L’incontro con la prostituta de La mia libertà è un capolavoro, vale Il cielo in una stanza. Mi spiace non aver avuto l’età per conoscere il Califfo. Mi avrebbe raccontato delle sue prigioni, tra l’altro.
Lo misero in cella con Pietro Valpreda… A proposito, il suo nome d’arte Franco è un omaggio a Califano? All’anagrafe lei è Federico.
Ma no. Eravamo pischelletti quando un mio amico mi ribattezzò Franco, non ricordo perché. Neanche mia madre mi chiama più Federico, nutro conflitti di identità. Franco126 è il segno d’appartenenza alla posse della Scalea del Tamburino, a Trastevere. Oggi ci salgono i fan dei rapper, sui 126 scalini.
Un tempo ci combattevano i garibaldini. Invece da una decina d’anni la vostra cricca ha ridefinito l’iconografia del quartiere. Davvero ci vivete?
Ci vorrebbero tre mutui per Trastevere. La Scalea è un confine simbolico. Oltre, comincia Monteverde.
Davvero provaste a sfidare a carte i vecchietti del mitico bar San Calisto…
Prenderemmo certe sveje! Meglio concentrarsi su quel che sappiamo fare. Nel 2023 noi della 126, io, Ketama, Pretty Solero e gli altri faremo uscire un disco collettivo, che dopo suoneremo in giro. Sarà un tributo alla nostra “colla”, che ci ha portati lontano, ma che ci riconduce sempre lì. A lungo, dopo ogni cenone di Natale ci siamo dati appuntamento alla Scalea per gli auguri. Spesso, in certi pomeriggi, torno a guardare il mondo da lassù.
Nel disco ci sarà l’ex-socio Carl Brave?
Macché, siamo diventati amici più tardi. I valori dei vent’anni li avevo condivisi con la posse. Con Carlo abbiamo fatto un album in coppia. Ora lui ha preso una strada più pop della mia.
Brave ci sarà, tra gli ospiti di questi suoi due concerti di fine tour, domani a Milano e sabato a Roma?
No, ma le sorprese non mancheranno. Assago e il Palasport dell’Eur saranno speciali.
Andrebbe a Sanremo?
Quest’anno lo escludo. Non avrei comunque il pezzo giusto. E l’ambiente festivaliero mi rende diffidente. Io sono riservato, quel carrozzone mi spaventa.
Molti dell’infornata “alternativa” degli anni Dieci farebbero la fila per andarci.
È un punto di svolta legittimo. Quella scena indie è adesso a un livello di massimo ristagno. Il mainstream è un passaggio inevitabile. Calcutta è un grandissimo autore, Tommaso Paradiso sa come fare un pezzo perfetto, e così Gazzelle.
Lei è invece un malinconico. È difficile crescere, magari smarcandosi dal trap per approdare a un cantautorato più classico?
È la vita a essere più faticosa. Combatto l’ansia ribellandomi alle scadenze che questo lavoro vorrebbe impormi. Potrei fare un altro album tra due anni, chissà. In compenso, a trent’anni ho consapevolezze che da pischello non immaginavo.
Lo dimostra nella magnifica ballata, Maledetto tempo, scritta ma non inserita nella colonna sonora del film di Infascelli su Totti.
Me la commissionò Alex, poi si sono orientati su un repertorio più internazionale.
L’affaire Totti-Blasi?
Cose loro. Di poesia ne vedo poca, in quel bailamme. Tutta la privacy buttata in piazza.
Il suo ultimo album Multisala era, in controluce, una dichiarazione d’amore per il cinema.
Continuo ad andarci, nelle sale, e se non fosse che così falliscono, adoro quando sono vuote.
Il 25 voterà?
L’ho sempre fatto, lo considero un dovere, oltre che un diritto. Se non lo eserciti, non dovrai lamentarti per come andrà a finire. Mai dare niente per scontato.