il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2022
In difesa di Claudio Baglioni
Alla notizia che Claudio Baglioni ha vinto il Premio Tenco 2022, qualcuno ha ironizzato sul “passerotto” e la “maglietta fina” e proposto beffardamente il Nobel, dimostrando con ciò di scrivere (su quotidiani nazionali, non su Twitter) di materie che non padroneggia, e di avere del “cantautorato alto” un’idea piccolo-borghese (la canzone d’autore dev’essere esclusiva, non popolare, “impegnata”, cioè contenere tutti i rassicuranti stilemi dei rivoluzionari addomesticati).
Baglioni ha affermato la sua poetica totalmente originale in un momento in cui era quasi impossibile svincolarsi da un tacito obbligo alla politica strimpellata in giro di Do, pena la consegna alla lista dei nemici del popolo, concentrati sull’amore come dimensione dell’evasione individualista e del disimpegno, e ha portato avanti per 50 anni un’inesausta ricerca al cuore dell’autenticità artistica.
Già Questo piccolo grande amore (1972), scritto a vent’anni, e Solo (1977) erano concept-album di modernissima costruzione, elaborati attorno a un tema: una storia d’amore sullo sfondo del ’68, e la solitudine propria e di persone geograficamente o biograficamente lontane (il cosmonauta Gagarin, un tassista di Rio, una venditrice di castagne etc.).
L’album dell’affermazione è Strada facendo (1981), orchestrato da Geoff Westley, produttore e arrangiatore illustre, protagonista insieme a Baglioni di due preziosi concerti alla Reggia di Caserta il 17 e 18 settembre scorsi. I personaggi dell’album sono emblemi della fragilità (I vecchi) o di alterità antropologica (Ragazze dell’est); è l’autore stesso, che mette la sua infanzia e la sua ricerca d’identità in brani che impunturano il racconto con ottocentesca “ironia romantica”; siamo noi, impegnati nella costruzione quotidiana di una provvidenza personale che custodisca un domani migliore.
La vita è adesso (1985), 4 milioni e mezzo di copie vendute, tuttora l’album più venduto di sempre in Italia, è un lavoro di straordinaria tensione lirica e grande rigore compositivo. La sua potenza è nella tecnica cinematografica con cui l’autore rappresenta una giornata, dal risveglio in uno scenario metropolitano alla notte che cala su un paesaggio marino, attraversata da figure rese con pennellate di efficace sintesi poetica: mercanti d’armi con la 24ore, derelitti, preti, coppie nell’atto di separarsi, un’adolescente nella tenaglia tra incomunicabilità famigliare e alienazione urbana, innamorati che tessono sui tram e nei cinema gli invisibili fili tra occhi e occhi di cui è affollato il mondo, musici che strappano alla notte parole e suoni per alimentare i sogni di qualcuno. Due supernove nel decennio luccicante eppure scialbo del riflusso e dell’edonismo: uno scandaglio delle profondità a fronte del trionfo della superficie.
Chi pensa che Baglioni sia il cantore del sentimentalismo adolescenziale non ha mai ascoltato Oltre (1990). Si tratta di un’epopea poderosa, dalla nascita di un eroe-guerriero-cantore, un Ulisse/Sindbad/Gilgamesh che parte per una spedizione dentro sé sulla spinta di un impulso di ricerca, fino alla sua tregua col divenire, attraverso i passi di un’evoluzione spirituale resa con suoni sperimentali, nativi, e testi densi di neologismi, calembour, metafore turbinose e eleganti (in Io dal mare: “Larghe nuvole di muffa e olio appaiate come acciughe o una vertigine di spiccioli di pesci nella luce nera di lattughe”). Chi parla di un Baglioni indifferente ai dolori del mondo ascolti Le mani e l’anima, canto dell’Africa violata, o Qui Dio non c’è, un reportage in 5/4 nelle nostre periferie abrase di ogni senso del sacro. Oltre è la cosmogonia di un universo popolato di creature ammalianti (la cruda tenerezza dei corpi in Vivi, le atmosfere baudelairiane di Signora delle ore scure), personaggi grotteschi (i doganieri-giudici di Dov’è Dov’è), cavalli che custodiscono l’assenza dell’amata (La piana dei cavalli bradi), la quale separandosi dal cantore fabbrica una trama di perfetta simmetria di incontro e addio, la condanna al chiasmo perenne in cui vive chi perde un amore ma non l’amore, il futuro ma non il ricordo (Mille giorni di te e di me).
L’album più recente, In questa storia che è la mia, segna un’altezza cui molti artisti anelano: la semplicità come perfezionamento della complessità. In tanti anni di carriera, mai inseguendo i tempi (semmai anticipandoli: in Chi c’è in ascolto, da Viaggiatore sulla coda del tempo, 1999, cantava: “Chissà se queste macchine che parlano per noi ci avvicinano o ci allontanano”), Baglioni ha creato capolavori rilucenti della loro autonomia artistica a dispetto di ogni supposto Zeitgeist.
Alle sue opere è riuscita quella strana alchimia delle creazioni di eccezionale ispirazione sorgiva (le arie di Mozart fischiettate dai fornai): quelle più mature sono “arrivate” al pubblico esattamente come quelle apparentemente più semplici, mentre le giurie seriose, ciarliere e insipienti, alzavano il sopracciglio.
Lode alla giuria del Tenco, dunque. I critici irridenti si rassegnino: se mai si deciderà di dare il Nobel a Baglioni (dopo Bob Dylan), noi saremo qui a spiegare perché ciò è perfettamente giusto.