Il Messaggero, 21 settembre 2022
Intervista a Arrigo Sacchi
«In questi quattro anni gli italiani disponibili invece di aumentare sono diminuiti. Se i club pensano che investire poco sui giocatori italiani sia la strada giusta, si può fare ben poco». Due frasi estrapolate dalla conferenza stampa tenuta da Roberto Mancini lunedì a Coverciano.
Che cosa dice Arrigo Sacchi?
«Non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire. Il nostro calcio ha vissuto un momento di gloria tra il 1987 e il 1999, quando vincemmo quindici trofei in Europa e, con la nazionale, ai mondiali ci furono il terzo posto nel 1990 e il secondo, superati ai rigori dal Brasile, nel 1994. Il nostro football stava progredendo, lo sviluppo fu interrotto perché il problema di fondo è il sistema paese. L’Italia illuminò il mondo molti secoli fa, quando il bacino culturale era il mar Mediterraneo. Oltre le Alpi, c’erano i barbari, ma le parti si sono rovesciate. Il Nord adesso guida il mondo e noi siamo fermi. Al massimo, inseguiamo. Se l’Italia è costretta oggi a rincorrere altre nazioni più moderne e sviluppate, come possiamo pretendere che il calcio non rispecchi la realtà generale?».
Abbiamo avuto i magnifici exploit del mondiale 2006 e dell’europeo 2021, le tre Champions con Milan e Inter nel 2003, 2007 e 2010, ma negli ultimi vent’anni il nostro campionato ha perso statura e appeal: perché siamo tornati indietro?
«Siamo una nazione gattopardesca, dove tutto deve cambiare per non cambiare nulla. Siamo il paese delle corporazioni e delle mafie. La mafia esiste perché siamo mafiosi nell’animo. Siamo un paese con un elevato tasso di corruzione. Chi arriva al potere, magari all’inizio animato davvero da buone intenzioni, alla fine deve pagare il prezzo dei compromessi ai quali si è dovuto piegare durante la scalata».
Risultato, tornando nel calcio?
«Siamo tattici sul campo e con club pieni di debiti. Si spende all’estero e non s’investe nei nostri settori giovanili. Pensiamo sempre di cavarcela con i soldi e con la furbizia».
La Spagna però non è il Nord, ma nello sport in generale e il trionfo nell’eurobasket con la nazionale guidata da Sergio Scariolo è solo l’ultimo esempio, si gioca bene e si vince.
«La Spagna ha il culto della tecnica e della bellezza. In Spagna c’è l’umiltà di chi vuole apprendere per migliorarsi. In Italia non siamo solo scarsi: siamo anche presuntuosi. E la presunzione è una delle peggiori bestie. Le basi del mio Milan furono quelle di giocatori seri, motivati, entusiasti. Quando arrivai nel 1987, chiesi al presidente Berlusconi la cessione di un calciatore importante. Non era professionale. Berlusconi mi disse ma lui è bravo, se lo cediamo chi prendiamo?. Gli risposi: gioca la sua riserva».
Morale: siamo fuori dal mondiale per la seconda volta di fila.
«Ce lo siamo meritato. Il nostro primo pensiero è per i rigori sbagliati contro la Svizzera, ma la verità è che il primo posto della nazionale elvetica non è frutto del caso. Nel periodo in cui fui il coordinatore delle nazionali giovanili, andai in Svizzera per vedere come lavorano nelle loro accademie. Scoprii club super attrezzati, con strutture all’avanguardia. L’ascesa di un movimento non è mai figlio dell’improvvisazione. Bisogna investire e lavorare. In Italia si pensa ad altro: ad esempio si consente di allenare solo a chi abbia giocato in serie A o B. Con questo criterio, io, Zaccheroni, Sarri e Zeman non avremmo mai lavorato ad alto livello».
In Germania c’è una nuova ondata di coach che vengono dalla base e sono giovanissimi. Nagelsmann all’età di 34 anni si è ritrovato alla guida del Bayern.
«In Italia non si dà fiducia ai giovani calciatori, figurarsi gli allenatori. Si torna alla casella di partenza: problema culturale».
De Ligt appena sbarcato al Bayern ha parlato del suo disagio nel passaggio dalla Juventus, denunciando la carenza di preparazione fisica e d’intensità. La chiave di lettura in Italia è stata quella della dichiarazione polemica e non si è considerato invece il problema di fondo.
«In Italia si bada alla tattica. Il nostro calcio è sommerso dal tatticismo. Siamo prigionieri di questo schema. Ma come affermò il generale e filosofo cinese Sun Tzu, quando un tattico incontra uno stratega, il tattico perde».
Il Napoli di Luciano Spalletti esprime un calcio diverso rispetto all’andazzo generale: quattro gol al Liverpool, tre ai Rangers in Scozia, il successo in casa del Milan.
«Spalletti ha sempre avuto una vocazione diversa, ma ora è sulla strada giusta. Milan-Napoli è stata una delle poche partite divertenti del nostro campionato».
Le sorprese della serie A sono l’Atalanta seconda e l’Udinese terza. L’Atalanta sorprende due volte perché propone un calcio diverso rispetto al recente passato. A Roma ha vinto con la difesa di ferro e sette ammoniti.
«L’Atalanta ha cambiato molto ed è in una fase di transizione. L’Udinese ha grande forza fisica».
Altra frase di Mancini: In Italia prevale il 3-5-2, forse dovrò adeguarmi. Possiamo dire che la retroguardia a tre in realtà è un’ipocrisia, perché nella fase difensiva si passa a cinque?
«E’ un altro esempio di furbizia, in questo caso sul piano comunicativo. Sul piano pratico regaliamo sempre due-tre giocatori agli avversari. Abbiamo la cultura del catenaccio e del contropiede nel nostro DNA. In questo modo, dopo aver cambiato alleato come spesso è accaduto nella nostra storia, abbiamo vinto la Prima guerra mondiale. Una volta il gallese Mark Hughes mi disse: Se il campo di calcio fosse grande due chilometri, gli italiani occuperebbero sempre gli ultimi venti metri. Siamo questi».
Non c’è una contraddizione di fondo: un paese come l’Italia, ricco di patrimoni artistici, in prima linea con la moda, brutto e avaro di emozioni nel calcio?
«Un direttore del Pais, molti anni fa, mi disse: siete il paese delle antichità e amate l’antico».
Amiamo anche farci del male: abbiamo un fuoriclasse come Mario Draghi alla guida del governo e la politica lo manda a casa.
«Nemo propheta in patria. Locuzione latina. Vizio antico anche questo».
Perché lei negli anni Ottanta parlò di bellezza nel calcio?
«Mio padre possedeva due calzaturifici e la nostra casa era frequentata da imprenditori stranieri. Si guardava al mondo. Questo mi ha portato a vedere le cose in modo diverso. Quando arrivai al Milan, c’erano trentamila abbonati. La stagione successiva erano settantamila. Il pubblico ama la bellezza. E’ il nostro calcio che non è capace di produrla. Del resto, se lo slogan del club più importante d’Italia è vincere non è importante, è l’unica cosa che conta, come si fa a immaginare uno scenario diverso?».