Corriere della Sera, 20 settembre 2022
Intervista ad Anna Kanakis
«Tutto è iniziato il giorno in cui, dopo aver letto il mio primo manoscritto, il compianto Cesare De Michelis mi disse: tu hai una fantasia malata, ti pubblico». Accadeva più di dieci anni fa, Anna Kanakis era celebre per essere stata Miss Italia, per essere protagonista di fiction di successo come Vento di Ponente e per essere stata responsabile del settore Cultura e Spettacolo dell’Udr di Francesco Cossiga. Ora, ricorda: «Un giorno, leggendo una biografia di George Sand, mi appassiono alla figura di Alexandre Manceau, il suo ultimo amante. Prendo foglio e penna, inizio a scrivere: era lui che raccontava la sua storia. I fogli si ammonticchiano, li trascrivo al computer, li mando agli amici Isabella Bossi Fedrigotti e Massimo Gramellini. Entrambi mi chiamano dicendo: “Anna, questo è un romanzo, devi proporlo a una casa editrice”». Oggi, è al suo terzo libro: Non Giudicarmi esce per Baldini+Castoldi venerdì 23 settembre.
Che cosa intendeva l’editore di Marsilio con «fantasia malata»?
«Che volo tanto con la testa. Ho scritto sempre romanzi storici, su persone realmente esistite, che riesco a riempire di emozioni. Ora ho raccontato l’ultimo giorno di vita del barone Jacques d’Adelswärd-Fersen, che ho fatto semplicemente sbarcare a Capri e arrivare a casa: lui prese la funicolare, io l’ho fatto salire a piedi. Lui ci mise dieci minuti, io ho scritto 112 pagine in cui scorre una vita intera, con paure, ossessioni, sensi di colpa, perversioni, amici, nemici: questa è la mia “parte malata”, il volo con la fantasia, che pure rimane fedele alla storia. Volevo raccontare la fatica esistenziale e sentimentale di un omosessuale negli anni ’20, perché il passato aiuta a capire il presente e sul tema diritti e omofobia, oggi, ce n’è particolarmente bisogno».
Nella vita, la fantasia è malata o sana?
«Ho dentro un casino greco-siculo, romantico e sentimentale, che cerco di dominare con la razionalità. Prima ero più concentrata su me stessa, ora guardo più alle vite degli altri, ne immagino le sofferenze, mi adopero per aiutare».
E si sente più attrice o scrittrice?
«Quando arrivò il primo scatolone coi miei libri, chiamai l’avvocato Giorgio Assumma che mi seguiva come attrice e gli dissi: temo che non ci vedremo più per le fiction, perché mi sono innamorata della scrittura. In fondo, scrivere si avvicina alla recitazione: se interpreti qualcuno, fai una ricerca, cerchi di capirne le emozioni. Infatti, già da attrice, sulla ricerca ero maniacale».
La cosa più maniacale che ha fatto?
«Assistetti a un’autopsia con Nicola Calipari».
Con l’agente del Sismi ucciso in Iraq?
«Allora era nella Criminalpol. Fu lui a spiegarmi cosa si fa appena si arriva sulla scena del crimine. Era il 1999, dovevo girare una fiction: Fine Secolo, sei puntate per Raidue. Facevo una superpoliziotta arrivata dall’America per indagare sulla morte di una ragazza. Dovevo sparare come un tiratore scelto, buttare a terra un delinquente, fare testacoda pazzeschi, assistere a un’autopsia. L’ispirazione era Nikita. Cossiga chiamò il capo della Polizia, disse: c’è un’attrice che lavora per me, un tipo molto esigente che vuole imparare a fare tutto».
Mima bene la voce del fu presidente emerito.
«Mi manca quel signore col quale parlavo di cinema, letteratura, tutto. Aveva la freschezza di un bambino. Era bimbo dentro e abile politico fuori. Quando mi chiamò per arruolarmi nel partito, mi fece ridere dicendo: stia tranquilla, se non la fanno lavorare perché è con me, vado sotto al cavallo della Rai e faccio un gran casino».
Che altro imparò per quel set?
«Il capo dei Nocs mi affidò a un campione di pistola che m’insegnò a sparare al poligono della Polizia e che mi insegnò ad atterrare i criminali con una mossa di aikido».
La mossa di aikido se la ricorda ancora?
«Certo. E, dopo, ho preso il porto d’armi».
Che ci fa con un’arma?
«Tiro al piattello in Toscana o tiro dinamico al poligono. Ho un’ottima mira».
Il «tiro dinamico» che sarebbe?
«Un tiro velocissimo con un bersaglio mobile, come nei film di Clint Eastwood, quando si vede che spuntano un prete e un delinquente e lui deve scansare il primo e accoppare il secondo. Si fa con le sagome. Modestamente, mi riesce bene. Ho voluto la pistola perché vivevo da sola in un attico di Roma in via Del Corso: se sai sparare e ti entrano in casa, azzoppi un piede; se non sai sparare, ammazzi qualcuno».
È mai uscita con la pistola nella borsetta?
«Le prime volte, se andavo in metro da sola».
Non ha avuto ripensamenti sull’addio ai set?
«Mai. Anzi, mi sono sentita liberata dalla schiavitù di apparire. Padrona del mio lavoro: non dipendevo più da un regista o da un produttore, ma ero libera di gestire il mio tempo e produrre una forma d’arte diversa. Ho lasciato senza rimpianti e ai massimi, mentre andava in onda La terza verità, che faceva quasi 8 milioni di ascolti. Dopo, quando dicevo no a dei copioni, non ho provato emozioni. Invece la prima recensione mi aveva asciugato la bocca, ero impazzita di gioia. Ne ho poi collezionate 19: su un romanzo storico, scritto da un’attrice, ex miss...».
Facciamo un passo indietro a quel 1977 in cui a 15 anni diventava la più bella d’Italia.
«Ancora? È roba vecchia come le guerre puniche. L’ho raccontato mille volte di come fu per caso, di come mi selezionarono in vacanza a Vulcano... Da lì, se fai l’attrice, allora sei miss e non puoi essere brava e devi dimostrare più delle altre, come se la bellezza si potesse coniugare solo con la stupidità».
Mettiamola così: chi era la giovane Anna?
Gli inizi al cinema
In quel periodo andavano le scene sotto la doccia... non facevano per me. Poi Tornatore, un mio giovane amico che iniziava nel cinema, mi diede la dritta giusta
«Una ragazzina che studiava al liceo Cutelli di Catania, fortemente politicizzato a sinistra: un giorno sì e uno no, si facevano assemblee. Leggevo tantissimo, studiavo tantissimo ed ero cresciuta con una madre in gamba, capo dell’ispettorato del lavoro di Catania».
Il papà greco quanto c’era?
«Mamma era tornata in Sicilia con me e mia sorella e fu tra le prime a usufruire della legge sul divorzio. Nei miei primi 25 anni, lui l’avrò visto cinque volte, poi è morto. È stato un estraneo, il quale pensava che aver generato due figlie non significasse occuparsene».
Quanto le è mancata la figura paterna?
«Sono stata in parte cresciuta da nonna, perché mamma si era laureata e dava concorsi in tutta Italia. Ero viziata, ma dentro, a volte, sentivo solitudine. Crescendo mi sono accorta che guardavo non i coetanei, ma gli uomini più grandi e che dipendeva dall’assenza del padre. Al che ho letto un tomo sul complesso di Elettra e ogni volta che incontravo un signore che mi pareva affascinante mi dicevo: Anna, fermati, rifletti. Così, l’età dei fidanzati successivi è scesa».
Il primo matrimonio – lei 19 anni, lui dieci in più – durò niente.
«Cercavamo le stesse cose: io un padre, lui una mamma. Lì iniziò la mia vita romana da sola. Facevo la mannequin, il cinema me l’avevano proposto in tutte le salse, ma andavano Edwige Fenech e le scene sotto la doccia: la mamma ispettrice del lavoro e la figlia che leggeva romanzi non intendevano fare quel genere di film. Poi, un giorno, Giuseppe Tornatore, un giovane amico che iniziava nel cinema, mi parlò delle mie pagliuzze negli occhi».
Che cosa sono queste pagliuzze?
«Guizzi che deve avere l’attore per manifestare emozioni. Mi lasciai trascinare a un provino con Luigi Magni, per ’O re, che mi prese. Dopo, ho interpretato il soprano Maria Maligran nella Famiglia Ricordi di Mauro Bolognini, suore, una tossicomane in Riflessi in un cielo scuro di Salvatore Maira... Ho cercato ruoli che non fossero la bellona di turno».
Come eravamo messi col MeToo?
«Arrivavo da una sana educazione del Sud: ero poco disposta e poco disponibile. Qualche volta, qualcuno mi ha detto “se sarai carina con me, sarò carino con te” e non mi ha più vista».
Com’è la storia del rubino che uno sceicco arabo le fece trovare in un melograno?
«Lucherinate: invenzioni da ufficio stampa».
Un incontro memorabile della sua carriera?
«Con Alberto Sordi: la stampa rosa ci aveva anche fidanzati. Giravamo L’Avaro con Tonino Cervi, un giorno, davanti al camino, in abiti di scena, mi raccontò che non volevano produrgli Un borghese piccolo piccolo, il suo film più bello: I produttori gli dicevano “Albe’, ma qua non fai ride’...”. Capisce la cecità?».
Un momento di down in cui si è detta «basta questo mestiere non fa per me»?
«Mai. Sono un panzer. E avevo scelto un mestiere in cui, anche se ti chiami Gassman, finisci un lavoro e sei disoccupato. Infatti, ero concentratissima sul lavoro. Dopo il divorzio sono rimasta di fatto single fino a 42 anni».
Single, ma corteggiatissima?
«Un pochino». Sospiro. «Vabbé... Tanto. La mamma mi vedeva tagliare le teste e mi diceva: ma perché quello non ti piace? E quell’altro?».
A che punto della conoscenza tagliava teste?
«Quando dicevano: ho la barca, ho questo, quell’altro. Detesto la mancanza di profondità».
Suo marito Marco Merati Foscarini è banchiere e discendente di un doge di Venezia, com’è che lui l’ha sposato in soli quattro mesi?
«Mi ha fatto riacquistare la stima nel genere maschile. Mi ha avvicinata a una cena parlando non di quello che possedeva, ma di quello che sentiva dentro di sé. Siamo sposati da 18 anni. È il primo che legge ogni mio capitolo».
Scrive ancora a penna?
«Sì e poi copio al pc. Scrivere richiede ritualità e disciplina. Io mi chiudo nel mio studio in vestaglia, salto il pranzo, scrivo fino alle 16.30, poi Marco mi porta da mangiare e stramazzo».
Compiere 60 anni, a febbraio, che effetto le ha fatto?
«Nessuno. Ho un rapporto sereno con l’età».
L’autopsia con Calipari
Per prepararmi a una fiction assistetti a un’autopsia con Nicola Calipari. Fu lui a spiegarmi tutto ciò che si fa quando si arriva sulla scena di un crimine
Ha ancora un sogno?
«Sì: vorrei una società più luminosa».