La Stampa, 20 settembre 2022
Cristo secondo Pozza
Anticipazione del libro Chi dorme non piglia Cristo di Marco Pozza, Rizzoli
Credo.Non credo.
Perché dovrei credere a Dio?
Quante volte mi son fatto questa domanda. Anche perché credere in Dio è di una banalità così maestosa che manco rimpiangerei, qualora non esistesse, d’essermi sbagliato di brutto. Dio è un essere lontanissimo, irraggiungibile, tanto astratto: è simile a Zeus, ad Apollo, a qualsiasi altro dio pagano. Il difficile, per la maggior parte della gente, è credere in Gesù, nel Cristoddìo dei Vangeli. Nel Dio che, da lontano ch’era, si avvicina all’uomo al punto tale da farsi stringere la mano, prendergli la mano: basterebbe allungare un po’ la mano. Da mettersi nelle nostre mani, nell’attimo dell’Eucaristia. Un Dio alla mano, dunque.
Mi convince, eccome se mi convince, questa sua potentissima debolezza: non si vergogna di stare spalla a spalla con gli uomini, specialmente con quelli brutti-sporchi-cattivi. Anche i potenti (che poi alla fine son mosche cocchiere pure loro, se solo lo sapessero!), sotto elezioni, vanno in cerca di costoro per mungerli. Cercarli, però, quando tutti li schivano mi fa credere che Gesù sia uno di noi. Eppoi credo in Gesù perché, indossando gli occhiali degli evangelisti, lo vedo lavorare con le sue mani, parlare con i suoi fatti – visto che le parole servono solo per fare i cruciverba! –, perché m’accorgo che sa rispettare fino in fondo la libertà di tutti, senza imporsi, senza spintonare. È uno che bussa, non ha l’alterigia di chi entra senza chieder permesso, non usa il piede di porco, non tiene delle bustarelle in tasca: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20).
Infine, il motivo più credibile: credo in Gesù perché, a conti fatti, questo credergli è la risposta a una domanda (che viene prima) alla quale non ho ancora trovato una risposta all’altezza. «Come fa Cristo a credere in uno come me?». Io, questa cosa, non l’ho mai capita: perché so chi sono, quanto (non) valgo, quant’è fiacco il mio cuore.
Quanto lo tradisco.
Un giorno una signora – era un po’ naïf quella signora! – mi dice: «Vedo che ti piace fare il mantenuto!». Pensava di insultarmi, cercava l’arrabbiatura, invece non si è accorta che mi stava rivolgendo il complimento più bello: «mantenere», nell’accezione latina, significa «tenere per mano». Anche per quella signora c’è la possibilità di vivere da mantenuta: «Se apre la porta», da Natale in poi, Dio ci vuole mantenere tutti! Il cristiano, se vorrà, potrà esser il più celebre mantenuto del- la storia. Poi, se non lo accetta, è un fatto strettamente personale, tutto suo.
Certo: rimbombano temporali e tormenti ovunque nella mia vita. È una stanza in cui entra l’acqua da più parti. Il nonno, però, mi ha insegnato che servono anche i temporali: per scoprire chi è disposto a dividere l’ombrello con te. Poi Dio, siccome fa di testa sua (per fortuna), certi giorni mi ascolta: calma il temporale. Altri giorni lo lascia urlare e decide di calmare suo figlio, che son io. È fatto così, non posso farci niente. Lo amo per com’è, come Lui ama me così come sono: rotto, slabbrato, fiacco. Me lo ritrovo sempre dove meno mi aspetto di (ri)trovarlo: i drammi più struggenti e più strambi non si svolgono nei teatri, ma nel cuore dell’uomo. Siccome lo amo, poi, accetto che non tutti lo accettino, che non tutti lo amino: accetto, anche, che ci sia chi è disposto a non credere affatto in Dio ma al primo che passa per la strada. Ci sta, eccome: la cosa che mi preme, però, è di non sentirmi costretto a dare fiducia a chi fa la pipì sulla testa degli uomini, facendo loro credere che sia pioggia.
È pipì, non è pioggia.
C’è una pagina dell’Evangelo che mi impedisce di non credere al Cristoddìo di cui parlo, per cui vado fiero d’essergli affiliato: sono i primi diciassette versetti dell’Evangelo di san Matteo (riciclato, pure lui, da una situazione lavorativa così così, come si dice). Una pagina che, a leggerla da fuori, annoia. Basterebbe, una sola volta, guardare dal pulpito la gente che l’ascolta, mentre a qualcuno tocca leggerla: l’uditorio pare un campo di carote, tutte con la testa in giù per la troppa sonnolenza. Eppure è d’un incantesimo insensato: «Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo» (cfr Mt 1,1-17). Una lunghissima serie di nomi, di nascite, di stupori: non è altro che l’albero genealogico del Bambingesù. È nel grattare dietro quei nomi, però, che si annuncia l’inaspettato della Novella Buona. L’inaudito che scandalizza. Quella storia, la sua storia – che pretenderà di essere la madre di tutte le storie, non soltanto di quelle a venire ma anche di quelle anteriori – somiglia a un bordello di Caracas: latrocini, incesti, idolatrie. Corna imponenti come cornamuse, meretrici, lenzuola spiegazzate, carni che si avvinghiano, re con la bava alla bocca. Nessuno, tra gli umani, potrà vantare una genealogia più lurida e pazzesca di quella di Cristo.
Iniziamo bene! —