Il Messaggero, 20 settembre 2022
Impariamo dagli scimpanzé. Intervista a Carl Safina
Cosa distingue la femmina di capodoglio Pinchy, l’ara Tabasco, o lo scimpanzé Musa? In apparenza, moltissimo: la prima si immerge negli abissi tropicali per cacciare calamari e torna a nutrire la propria neonata; il secondo vola in coppia con un terzo incomodo, l’ultimo nato, che ancora pretende di essere accudito; e mamma scimpanzè usa il muschio come spugna per dissetare il proprio figlioletto. Ma in realtà sono tutti Animali non umani, raccontati nel suo ultimo libro dal celebre naturalista statunitense (di origine siciliana) Carl Safina, che «devono apprendere da zero tutto ciò che li contraddistingue, la loro cultura sociale».
L’uomo cosa ha in comune con gli altri animali?
«Il nostro dna contiene geni antichi centinaia di milioni di anni. Gli esseri umani hanno ereditato la stessa biochimica, la medesima struttura cellulare, il sistema nervoso, gli organi, lo scheletro, la neurochimica che crea l’umore e la motivazione. Nessuna di queste caratteristiche è unicamente umana; sono tutte in comune con gli altri animali».
E allora cosa ci distingue da loro?
«Solo piccoli dettagli, che però fanno la differenza, quando si tratta della nostra rilevanza su questo pianeta. Lo stile di vita e la tecnologia non sono caratteristiche di base dell’umanità. I nostri geni hanno impiegato forse un milione di anni per arrivare a questo risultato. E ci sono arrivati soprattutto perché la mente umana è specializzata nel tinkering, nell’esplorazione creativa».
Vale a dire?
«Per quasi tutta la storia dell’essere umano gli arnesi più complessi di uso comune sono stati l’arco e le frecce. Ma grazie alla nostra capacità di sperimentare - e oggi siamo circa otto milioni a farlo - il cambiamento è diventato molto più rapido. Rispetto a quando sono nato, la popolazione è triplicata».
Lei scrive che ciò che è naturale non sempre viene naturale. Come fanno gli animali a sopravvivere nel loro ambiente?
«Allo stesso modo di noi esseri umani. Per prima cosa attraverso l’insegnamento materno. E poi, grazie alla comunità. Ma si ricordi che quando noi parliamo di apprendimento culturale, in opposizione a capacità puramente istintive, non parliamo di tutti gli animali, ma soltanto di quelli che vivono in gruppo. Istinto e apprendimento sono integrati. Noi abbiamo una propensione innata per le lingue, ma impariamo soltanto quelle che ci vengono insegnate».
Lei scrive di specie molto diverse tra loro, come il capodoglio, gli scimpanzè, i pappagalli ara. Che cosa hanno in comune?
«Appunto, sono tutti animali che vivono in società, dove l’apprendimento culturale è cruciale per il senso dell’identità e per le capacità di sopravvivenza che devono essere apprese nel corso del tempo».
Il patrimonio culturale in queste specie è paragonabile a quello delle società umane?
«Come nelle culture antropiche, i dettagli e i risultati differiscono tra specie e tra gruppi delle stesse specie. Ma la cultura è sempre la stessa cosa: è rappresentata dalle capacità e dalle preferenze che vengono apprese in maniera sociale e che si diffondono in una comunità. Un gruppo di capodogli si contraddistingue da altri per il foraging, per il modo di nutrirsi, e la loro cultura è parte dell’identità».
Cosa possiamo imparare dalla maniera che hanno gli scimpanzé di fare la pace tra loro?
«Dagli scimpanzé - che sono primati, e quindi molto prossimi agli umani - noi possiamo imparare molte cose. Anzitutto, va detto che la maggior parte dei primati sono pacifici. E, tra tutti, soltanto gli scimpanzé sono ossessionati dallo status del maschio. E soltanto tra loro un individuo può essere ucciso da un altro, dopo molti anni di convivenza nella stessa comunità. La cattiva notizia, ovviamente, è che questo accade anche nelle società umane. Ma ciò che possiamo imparare è che il conflitto è inevitabile nei gruppi sociali. E che bisogna imparare a riconciliare gli individui e a ridurre la tensione. Gli scimpanzé hanno acquisito queste capacità e le usano costantemente. Se ci riescono loro, possiamo farlo anche noi. Almeno, questa è la mia speranza».
Ci sono sempre nuove specie minacciate dall’uomo. L’ultima a scomparire, il dugongo, non più presente nei corsi d’acqua cinesi. Come si può fermare questo processo?
«Dobbiamo smetterla di pensare che noi umani siamo i soli ad essere degni di importanza. Bisogna, piuttosto, cominciare ad apprezzare il miracolo della diversità, dare priorità alla coesistenza. Dobbiamo insegnare, semplicemente, una cultura della salvaguardia».
È giusto clonare una specie estinta, per riportarla in vita, come si cerca di fare con i mammut o la tigre della Tasmania?
«In certi casi sì, in altri no. Ma soprattutto non possiamo dimenticare il problema, pensando di poterle comunque riportare in vita in futuro. Molte specie si sono estinte perché abbiamo distrutto il loro habitat, come nel caso del piccione migratore Ectopistes migratorius, che non esiste più dal 1914».
L’uomo sta distruggendo anche il proprio habitat?
«Tutti i problemi causati dall’uomo hanno soluzioni umane - in teoria. Siamo capaci di causare danni a livello planetario. Ma anche di riconoscere, analizzare e risolvere problemi come il surriscaldamento globale? Per ora, sembra di no. Solo metà delle persone dimostra di avere queste capacità, mentre l’altra metà appare accecata dalle ideologie o, semplicemente, non ha interesse per la questione. Ma chissà, forse riusciremo a rendere la sopravvivenza possibile. Almeno, è quello che spero».