Corriere della Sera, 19 settembre 2022
Veltroni, un narratore civile - prefazione a "Storie che parlano di noi. Cronache del bene e del male" di Walter Veltroni (Solferino)
Quando un grande leader politico, e Walter Veltroni lo è stato, decide per mille motivi di lasciare la cosa pubblica e smettere i panni del principe, di solito si rifugia, se proprio vuole scrivere, nella memorialistica. Ho fatto questo, ho fatto quello, si poteva fare quest’altro se non ci fosse stato il tale che lo ha impedito, e comunque mi sembra doveroso che la gente sappia come è andata la faccenda e perché, in fondo, avevo ragione io.
Questo libro è la prova che c’è un’altra possibilità, per quanto remotissima. Così remota da risultare fuori scala, fuori schema, imprevedibile, il sentiero nascosto dei nidi di ragno. Per qualche ragione che probabilmente ha a che fare anche con quello che ha letto, visto e sognato da bambino, Veltroni si è lasciato alle spalle le folle dei comizi e le concitate stanze dei poteri, per incamminarsi, senza quasi mai voltarsi indietro o comunque sempre meno, nella direzione opposta a quella di chi comanda o gestisce un partito o un Paese.
Chi guida qualcosa, di solito, si concentra sulla strada e su sé stesso (con un occhio nel retrovisore sul resto della comitiva di cui porta responsabilità). Chi racconta qualcosa di solito si dimentica, o sarebbe consigliabile farlo, di sé stesso e cambia di centottanta gradi la prospettiva: guarda senza farsi guardare e si mette solitario in cerca di una storia o di una persona che quella storia incarna. Una volta individuato l’obiettivo, dedica tutta l’attenzione all’ascolto, allo scavo, alla ricerca di una qualche verità, con metodo e pazienza, finché non arriva almeno vicino alla radice, al nocciolo della questione. E poi si dedica alla fase ultima del lavoro, che è quella del rendiconto di quanto si è trovato, la descrizione del nido di ragno, la restituzione a un terzo, cioè il lettore, di quanto si è andato scoprendo.
Le «cronache del bene e del male» che vi aspettano sono il raccolto di una seconda vita, quella da giornalista o appunto cronista, che scorre lontana da quella da leader e invece parallela a quella di autore di romanzi, gialli, documentari. Sono articoli, incontri, racconti di fatti, inchieste, riflessioni, apparse sul «Corriere della Sera», su «Sette» e su «Oggi»: alcune, per la loro potenza, sono rimbalzate anche lontano dagli ambiti dove sono state pubblicate; altre rappresentano tasselli di un puzzle la cui forma finale è un quadro di quello che siamo e forse anche del perché lo siamo diventati. Il titolo è pertinente: Storie che parlano di noi. E in quel «noi» c’è tanta Italia, ma anche tanto del mondo che ci sta intorno e a cui apparteniamo, per storia o per cultura, al di là dei confini che stanno soltanto nella testa di chi ne ha bisogno per definirsi.
Ma perché un puzzle funzioni è indispensabile che i singoli pezzettini che lo compongono siano compatibili, possano incastrarsi l’uno con l’altro senza fatica, condividano un’appartenenza a un disegno più grande. E i tiranti di questa appartenenza hanno inevitabilmente a che fare con lo stile, che è un insieme di coerenza di scrittura, unità di visione, interesse genuino verso ogni particella incontrata (o andata a scovare) sul sentiero.
Dal pozzo di dolore di Alfredino Rampi alla verità di Giulio Bodrato su Aldo Moro (o di Gennaro Acquaviva su Bettino Craxi), dal miracolo straziato di Aurelia, la bambina nata ad Auschwitz, al miracolo interrotto di Gino Strada, dalle confessioni senza reticenze di Ornella Vanoni o di Woody Allen, e l’elenco potrebbe continuare per tutti i tre atti e i quarantasei capitoli di questo compendio di umanità, la colla invisibile che tiene insieme e in armonia frammenti diversissimi è il prodotto fuori mercato di un artigiano che si è messo d’impegno per dare un senso alla propria bottega.
Lo ha fatto inventandosi un ingrediente, per l’appunto la colla Veltroni, che sul mercato prima non c’era e che adesso è il suo riconoscibile marchio di fabbrica. Basta prendere una pagina a caso per accorgersene: nascosti tra le righe ci sono la stessa mano, gli stessi occhi, il medesimo sguardo, l’identico velo di mastice, e non c’è bisogno di andare a controllare la firma dell’autore per avvertirne la discreta ma percepibile presenza.
La metamorfosi è compiuta: da protagonista della scena a narratore di tante scene, da intervistato a intervistatore, da principe a bardo. A memoria, non viene in mente un cambio di stato così radicale e dall’esito altrettanto felice (e non è un giudizio personale, bensì un verdetto del pubblico, inappellabile come quello degli elettori). Due volte sindaco della Capitale d’Italia, primo segretario dell’allora nascente (ottobre 2007) Partito democratico, vicepresidente del Consiglio nel governo Prodi (e ministro della Cultura), Veltroni Walter da Roma è ufficialmente, non da oggi ma da oggi di più, con questo libro a certificarlo, il protagonista di una seconda vita, dove i protagonisti sono gli altri e lui il giornalista che, chiedendo permesso, li avvicina e ce li porta in casa.
Nota bene. Considero Veltroni una persona amica. Ma il fatto che lo sia ha influito zero su quanto ho appena scritto. Per il niente che possa valere il mio giudizio, se pensassi che lui non ha i talenti indispensabili per lasciare un segno in questo mestiere, avrei gentilmente declinato questa incombenza. E amici come prima.