Corriere della Sera, 19 settembre 2022
Il Marchionne che ci siamo persi
«Mi volete spiegare perché Landini ha un consenso pazzesco, mentre io sto sulle palle a tutti?». Di fronte alla domanda del Grande Capo in maglione, il dirigente incravattato della Fiat abbassò lo sguardo e biascicò: «Veramente Landini non è poi così...». «Ma la smetta!», lo interruppe Marchionne. «Landini è uno vero. Ed è anche molto simpatico, persino a me...».
C’è un Marchionne che ci siamo persi. Quello che lui aveva in mente di diventare, dopo essere andato in pensione e aver lasciato tutti gli incarichi operativi «eccetto uno, la Ferrari». Una volta esauriti i suoi ultimi trimestri da ceo della Fiat-Chrysler (i dirigenti d’azienda ragionano per trimestri), si sarebbe rifugiato in una casa tra le montagne svizzere, dove non c’era campo per i telefonini, e lì avrebbe dettato le sue memorie a un giornalista. Avrebbe raccontato di suo padre maresciallo dei carabinieri, del nonno materno infoibato e dello zio ucciso dai tedeschi. Dell’adolescenza da nerd in Canada, quando le ragazze lo prendevano in giro per la cadenza anglo-abruzzese. E poi delle tre lauree, la prima delle quali, in filosofia, era quella di cui andava più fiero, «perché la scuola serve a darti gli strumenti non per trovare un lavoro, ma per aprire la testa: è così che troverai anche un lavoro».
La chiamata in Fiat
Nella seconda parte del libro avrebbe ripercorso la sua chiamata in Fiat nel 2004, quando l’azienda era in mano alle banche e perdeva due milioni al giorno, e la mossa del cavallo con cui aveva fregato – non mi viene in mente un verbo più diplomatico – il manager della General Motors, Richard Wagoner, venuto a Torino per esercitare il diritto di acquisto delle azioni Fiat: «Gli dissi che avevo controllato il bilancio e che faceva schifo. Lui rispose: “So bene che il vostro bilancio fa schifo.” E io: “Non hai capito, io sto parlando del vostro... Siete nella merda, Dick. Anziché comprarmi, ti conviene pagarmi perché io mi riprenda indietro tutto». Era un bluff da pokerista, vero? «Diciamo che Dick aveva sottovalutato il mio Dna italiano...».
Un altro capitolo lo avrebbe dedicato alla sua luna di miele con i sindacati («ma anche adesso che Landini mi odia, io continuo a pensare che le tute blu paghino per gli errori dei colletti bianchi»), quando con il lancio della nuova 500 e l’acquisto della Chrysler la sua popolarità raggiunse l’apogeo e i torinesi lo applaudivano per la strada. Le pagine successive del libro sarebbero state occupate dalla crisi finanziaria del 2008, con l’uscita dalla Confindustria, la fine della concertazione e la conseguente perdita di immagine presso le classi popolari, da cui ambiva a essere amato. «Ma ho in mente un capitolo finale che sorprenderà tutti. Già immagino il titolo che ne faranno i giornali: Marchionne è diventato comunista...».
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Il messaggino su Conte
Ovviamente Marchionne non era comunista e tantomeno populista: l’ultimo WhatsApp che mi mandò poco prima di morire conteneva un apprezzamento non particolarmente lusinghiero sulla carriera universitaria dell’avvocato d’affari e neopresidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Marchionne si sentiva più italiano che americano, ma più americano che europeo. Inoltre, sosteneva che in economia esisteva «un prima e un dopo Cristo» e il Cristo in questione era la globalizzazione, che lui assumeva come un dato di fatto incontestabile. Ogni volta che scrivevo un articolo elogiativo e nostalgico dello Stato Sociale alla scandinava o almeno alla democristiana, mi mandava delle mail in cui i passaggi incriminati erano evidenziati in giallo con il suo commento tra parentesi («questa è una totale stronzata»). Eppure, verso quel capitalismo finanziario che lo aveva reso ricco nutriva un atteggiamento ambiguo di fascinazione e di fastidio. Ne coglieva l’utilità, ma anche le storture, ed è proprio di questo che avrebbe voluto parlare nell’ultimo capitolo della sua biografia: «Qualche tempo fa sono stato invitato a un convegno in America. C’erano tutti gli uomini più influenti della Terra, quelli che siedono nei consigli di amministrazione che contano. Mentre parlavo dal palco, guardavo le loro facce in prima fila. Facce tronfie, piene di... com’è già che si dice “greed” in italiano?». Avidità, credo. «Ecco, sì, facce avide, di gente che ha completamente perso il senso della realtà e che per sgraffignare un punto in più di dividendi sarebbe disposta a far morire di fame l’umanità intera. Pensano di essere soli al mondo, questi imbecilli... Non capiscono che uno sceicco che mi compra una Ferrari si troverà sempre, ma se mandiamo in miseria il ceto medio, chi comprerà ancora le Panda?».
Monti e la poltrona
Appena azzardai che dopo un libro del genere gli sarebbe toccato entrare in politica, reagì con un gestaccio. «Quando andai a trovare quel gran signore di Monti a Palazzo Chigi, mi disse che stava tenendo in caldo la poltrona per me... Scherzava, spero. La politica in Italia è troppo complicata e al tempo spesso troppo poco seria. Ricordo la volta in cui Berlusconi, allora premier, convocò noi imprenditori e cominciò l’incontro con un paio di barzellette. Ho resistito alla prima, sulla moglie di un vecchio che non mi ricordo più che cosa facesse. Ma alla seconda sul bunga-bunga mi sono alzato di scatto e sono andato alla porta: “Chiedo scusa, ma i programmi comici li guardo in tv la sera. Adesso è ancora giorno e avrei da lavorare...”. Erano i tempi in cui giravo con l’altro mio passaporto, quello canadese, perché mi vergognavo di essere italiano...».
Niente politica, quindi, almeno di giorno. «C’è un solo caso in cui potrei fare eccezione, ma non è in Italia. Riguarda uno dei miei più cari amici, Joe Biden. Non so se prima o poi si candiderà alla presidenza degli Stati Uniti, anche se suo figlio, in punto di morte, gli ha fatto promettere che lo farà... Una volta mi ha chiesto se sarei stato disposto a fargli da ministro o da consulente per le attività industriali. Ecco, a Joe non sarei proprio capace di dire di no. A una condizione, naturalmente, quella che ho preteso dagli altri e da me stesso ovunque sono stato: poter migliorare il posto in cui vivo. Altrimenti, non servirei a niente».
A giugno Sergio Marchionne, il più famoso manager italiano del ventunesimo secolo, avrebbe compiuto 70 anni. Comunque la si pensi su di lui, ci siamo persi qualcosa.