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 2022  settembre 19 Lunedì calendario

Perché gli italiani non adottano più

ROMA – I bambini di “altrove” non arrivano più. Una crisi (forse) irreversibile che i numeri raccontano in modo evidente.
Erano 4.300 i figli dell’adozione internazionale entrati in Italia nel 2010, sono diventati 273 nel primo semestre del 2022. In mezzo dodici anni in cui tutto è cambiato, sia a livello internazionale che nazionale, tanto da far pensare che l’adozione, come percorso per diventare genitori e nello stesso tempoper dare a un minore abbandonato una famiglia, stia diventando un fenomeno residuale, abbia esaurito cioè la sua forza ideale e propulsiva. Del resto le statistiche dei bimbi arrivati in Italia da gennaio a giugno del 2022, diffusi dalla Cai, la commissione adozioni internazionali, sono ormai così esigui da imporre una riflessione profonda.
Cosa è successo? Perché sempre meno coppie fanno domanda di adozione, soprattutto per i paesi esteri? Alcuni dati “strutturali” della crisi sono noti. Diversi paesi hanno chiuso le frontiere. Sono cambiate le condizioni sociali, «come in India ad esempio», spiega Paolo Limonta, presidente del Ciai, «dove si è diffusa fortemente l’adozione nazionale, un fatto positivo certo, ma la conseguenza è che i bambini disponibiliper i paesi esteri sono quelli rimasti più a lungo negli istituti».Con le ferite più profonde. Oggi, con una statistica che sfiora il 70% dei casi, alle coppie vengono proposti bambini e ragazzi, bambine e ragazze special needs, con problematiche fisiche (spesso facilmente risolvibili) ma comunque presenti. Con un’età media, precisa la Commissione adozioni internazionali, di circa 8 anni. Altri paesi hanno ormai quasi chiuso le frontiereper scelte politiche (vedi la Cambogia e adesso naturalmente la Federazione Russa) pur avendo gravi problemi di infanzia abbandonata. Oppure, nel caso dell’Africa, la mancanza di leggi o situazioni di guerra rende ormai pericolose se non impossibili le adozioni, dall’Etiopia alla Repubblica democraticadel Congo. A questo si devono sommare le attese per l’arrivo del bambino, da 39 a 47 mesi in media nel 2020, fino ai 79 mesi per il Vietnam. Come fosse una gravidanza infinita. Qualcosa di insostenibile per chi da anni sogna un figlio. Ed è un dato non quantificabile, ma reale, spiegano gli psicologi, lo spostamento di coppie che un tempo si sarebbero rivolte all’adozione per diventare genitori, verso le tecniche sempre più efficaci di fecondazione assistita. Basta fare un raffronto: nel 2019 sono nati 14mila bambini con la procreazione assistita, ne sono stati adottati 1.205.
Paolo Limonta, maestro elementare e papà adottivo, è il nuovo presidente del Ciai, Centro italiano aiuti all’infanzia, storico (e virtuoso) ente che si occupa di bambini in difficoltà. «Sono molte le ragioni che hanno portato al crollo dei numeri, a cominciare dalla situazione internazionale di guerra in cui ci troviamo. Con la Federazione Russa si sono interrotte le relazioni diplomatiche, con l’Ucraina è tutto ancora molto difficile. La Cina dalla pandemia ha chiuso le frontiere. Diversi paesi dall’India alla Colombia al Brasile hanno potenziato l’adozione nazionale».
Limonta non crede però che si sia esaurita la spinta degli italiani verso i bambini di “altrove”. «È che ci vuole una enorme determinazione e dedizione, partendo dal principio che si tratta di dare una famiglia a un bambino e non viceversa. Ancor di più oggi che l’età media è più alta e i figli che arrivano sono, appunto, special needs».
Ci sono poi cambiamenti sociali, come il ricorso massiccio alle tecniche di procreazione medicalmente assistita. E il numero, seppure contenuto, di incontri falliti tra i genitori e i loro nuovi figli. «Sono tutti elementi da tenere inconsiderazione, ma l’adozione è un percorso prezioso che va rilanciato e protetto. Con accordi internazionali di cui si dovrebbero occupare i governi, i ministeri degli esteri. E con un gran supporto alle coppie, come facciamo noi al Ciai, proprio perché i bambini che arrivano hanno spesso vissuto in grave stato di abbandono. E i genitori se non sono sostenuti, aiutati, rischiano di andare in crisi».
Paolo Limonta ci tiene a sottolinerare la bellezza del percorso adottivo. «Quando mia moglie ed io siamo diventati genitori di Rahul che aveva quattro anni e mezzo, attorno a noi c’erano coppie con figli appena arrivati di sei, sette, otto anni. Devo dire che la crescita di un figlio, indipendentemente dall’età in cui viene adottato, è un’esperienza meravigliosa».