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 2022  settembre 19 Lunedì calendario

I cimeli del fascismo

L’escalation elettorale del partito nel cui simbolo fiammeggia un diretto richiamo al Msi ha riaperto la questione della persistenza di sedimenti fascisti nella società italiana e, per l’arcipelago antifascista, il dilemma sull’opportunità di trasporla dalla storiografia alla lotta politica. I sondaggi parrebbero dissuadere la sinistra dalla tentazione di fare dell’antifascismo una pregiudiziale degna di mobilitazione permanente, articolando su di essa piattaforma ideale e tattica elettorale. Per altro verso, cancellarlo dal discorso pubblico equivale a obliterare l’unicità, nel pur cruento panorama delle dittature novecentesche, di quello che Umberto Eco definiva «fascismo eterno».
«Se fossi fascista lo direi», ha chiosato la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, per tacitare chi le chiedeva di espungere la fiamma missina dal simbolo del suo partito, come gesto di recisione di radici fangose. E se fosse antifascista lo direbbe? E come mai la destra diserta sistematicamente le celebrazioni del 25 aprile, e considera la Costituzione alla stregua di un regolamento di condominio? Che fare, dunque? Testimoniare l’antifascismo come rifugio identitario in tempi cupi e tempestosi? O superarlo, portando il discorso pubblico su altri e più contemporanei piani?
Qualunque risposta si voglia dare, si dovrebbe cominciare dalla catalogazione delle tracce di fascismo che sopravvivono nella società italiana a un secolo dalla marcia su Roma. E dalla spiegazione del motivo per cui il trascorrere del tempo, lungi dal cancellarle, le moltiplichi. A fare i conti (ancora aperti) dell’Italia con il fascismo provano, con un mix di documentazione giornalistica e ricerca storica, il giornalista Sergio Rizzo e il politologo Alessandro Campi nel saggio L’ombra lunga del fascismo. Perché l’Italia è ancora ferma a Mussolini (Solferino).
La lapide di marmo che troneggia in una piazza napoletana, celebrativa dell’Impero «creato col sangue del popolo italiano» ed effigiata con la citazione del discorso di Mussolini del «9 maggio a. XIV E. F. 174° giorno dell’assedio economico» mosso con le «inique sanzioni» inflitte dalla Società delle nazioni dopo l’invasione dell’Etiopia. La ditta che produce e vende su eBay magliette della marcia su Roma a 11,99 euro. L’elogio del carattere «igienico» del saluto romano da parte del candidato sindaco del centrodestra nella capitale. I cori negli stadi. Gli striscioni in strada. La sentenza della Cassazione secondo cui il saluto romano «non è reato se non c’è il concreto pericolo della ricostituzione del disciolto partito fascista». Le cerimonie. Le intitolazioni. Le amnesie sulle orribili macchie nelle biografie di alti esponenti delle gerarchie fasciste, celebrati come eccellenze nazionali.
Furono gli stessi costituenti antifascisti a non voler liquidare una volta per tutte i conti con il fascismo. La defascistizzazione soft fu una scelta consapevole della classe dirigente democratica. Da un lato per salvaguardare la continuità giuridica e amministrativa di uno Stato fragile a chiamato a una titanica ricostruzione post bellica, dall’altro a scopo di pacificazione nazionale (Togliatti docet). Ma il tempo e la successione di tre generazioni non hanno prosciugato il carsico sottofondo nostalgico. «Le frasi tratte dai discorsi del duce sono il filo conduttore delle iscrizioni a caratteri cubitali che spuntano su tutti gli edifici pubblici», scrivono Rizzo e Campi. La toponomastica reducistica sopravvive nei più diversi angoli del Paese, da Pavia a Bagheria. «Quasi tutti i componenti del comitato scientifico della rivista Il diritto razzista, che ha tra i suoi collaboratori aguzzini nazisti del massimo livello, hanno la loro brava strada». E anche nella legislazione vigente sopravvivono locuzioni come «razza non ariana», non rimosse a dispetto di rutilanti riforme.
L’eredità materiale, e in molti casi monumentale, si somma a quella spirituale del fascismo. «A 80 anni dalla sua morte violenta, Mussolini è ancora saldamente presente nella cronaca e nell’immaginario dell’Italia e degli italiani. (…) Uno spettro trasversale, un morto vivissimo, una presenza o una minaccia ancora oggi incombente, un nome continuamente evocato, un’immagine che ancora suscita curiosità, spesso frivole e morbose, e attiva passioni fatalmente contrastanti». Il web amplifica questo culto che lo storico Sergio Luzzatto inquadra «tra necrofilia e senso del soprannaturale». Cimeli, raduni, riti, benemerenze. Immagini custodite nei portafogli come quelle dei santi. Persino supposte apparizioni medianiche. E affari, perché attorno al brand mussoliniano prolifera il business.
Capire, comprendere, censire. Gli autori propongono «piccoli gesti da Paese maturo». Ma in fondo nemmeno le 400 pagine di questo libro forniscono una risposta esaustiva alla domanda di fondo: che fare con il fascismo? Forse perché l’unica risposta che conta è quella che la destra non riesce ancora a dare. —