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 2022  settembre 18 Domenica calendario

UNA VITA IN ALTO – SARA SIMEONI, CAMPIONESSA OLIMPICA DI SALTO IN ALTO A MOSCA ’80, SI RACCONTA IN UN LIBRO – LA FOTO CHA FATTO STORIA, LEI CHE ESULTA A BRACCIA ALZATE: “SOTTO LE ASCELLE SI VEDONO I PELI. NON SI STAVA TANTO A GUARDARE. OGGI INVECE SONO COSÌ PERFETTE, NON CAPISCO DOVE TROVINO IL TEMPO PER...” - L'INIZIO CON LA DANZA, I PRIMI ALLENAMENTI ("MI PORTAVO AGO E FILO, LE DIVISE ERANO UNISEX, BISOGNAVA ADATTARLE”), IL MARITO ALLENATORE: “QUANDO LE COSE NON ANDAVANO BENE LE ARRABBIATURE SI FACEVANO SENTIRE”  -

«Oggi 19 ottobre 2017, sono seduta su una panchina al parco giochi dove c’è un campetto da calcio a 5 a sorvegliare i ragazzi di seconda media. Io sono “determinante” perché senza la mia presenza non sarebbero potuti uscire dalle mura scolastiche. Fa freddo, mi sto congelando, ma per fortuna quest’anno il tempo ci assiste e almeno non piove.

Spero di non ammalarmi. L’ex primatista del mondo di salto in alto pluridecorata, Grand’ufficiale della Repubblica italiana, tappa i buchi e si raffredda pensando alla pensione. Dalle ore 7.55 alle ore 14, finché non suona la campanella». Così Sara Simeoni, 69 anni, campionessa olimpica di salto in alto a Mosca 1980, scrive in Una vita in alto.

Lasciato l’agonismo è tornata a scuola. «Ho dovuto rifare tutta la trafila. Primo passo, l’anno di prova per dimostrare che ero in grado di insegnare. La mia cattedra la teneva la docente che mi sostituiva, il mio compito era fare il potenziamento: ero a disposizione, andavo in palestra ma la lezione vera e propria la faceva la collega. All’inizio ci eravamo divise un po’ i compiti... ma alla fine faceva tutto lei. Così mi sono ritirata in buon ordine».

Com’erano i ragazzi? «La scuola è sempre stata inibita nel fare tante cose, devi stare attento se gli studenti si fanno male, devi essere super assicurato... l’insegnante è costretto a compilare moduli per qualsiasi cosa, la burocrazia occupa quasi più tempo di quello che si riesce a dedicare all’educazione vera e propria».

Le piaceva insegnare? «Molto. Quando tenevo le lezioni facevo fare ai ragazzi cose che - magari per paura - i colleghi non gli facevano fare. Erano molto diligenti: avevano l’entusiasmo di provare cose nuove, ma quando gli dicevo di fare attenzione perché nella foga potevano cadere o farsi male, mi ascoltavano».

Facciamo un passo indietro, lei ha iniziato con la danza. «Mi piaceva tanto, ma quando è arrivato il momento di fare un’esibizione all’Arena, sono stata sostituita: ero troppo alta, nel gruppo “stonavo”. Ho capito che non ci sarebbe stato un seguito».

Com’è passata dalle punte all’asticella? «Casualmente, grazie alla scuola. Ero alle medie e ci hanno detto che nella nostra palestra si allenava una squadra di atletica. Non sapevamo nemmeno cosa fosse. Con alcune amiche abbiamo deciso di provare, era divertente e soprattutto un modo per stare insieme ai coetanei».

Cosa ricorda della sua prima gara? «Ero a Verona, al campo scuola di Basso Acquar: c’era la pista ancora in terra battuta e la buca di caduta era fatta con la sabbia, non c’erano i materassi. Le attrezzature non erano quelle sofisticate di oggi».

Andava ad allenarsi con ago e filo. «Le divise erano unisex, bisognava adattarle».

Monaco ‘72, il debutto olimpico. «Sono arrivata in auto con Eddie Ottoz. Una giostra di emozioni: far parte della squadra italiana, gli atleti provenienti da tutto il mondo, il villaggio con il suo brulicare di giovani, uno stadio imponente...».

Conserva ancora il cappello che le ha regalato un atleta del Lesotho? «Certo, allora non sapevo nemmeno dov’era il Lesotho».

Il 4 settembre chiude la sua gara al 6° posto ed esce a festeggiare. Il mattino dopo l’atmosfera è completamente diversa, cosa ricorda? «L’immagine è quella di un bel gioco che si è inceppato. C’era un silenzio assordante, le persone non sorridevano, i volti erano tesi. Non ci eravamo accorti di niente. Noi della squadra italiana eravamo vicini alla palazzina di Israele. C’era preoccupazione, però nessuno si aspettava l’epilogo che c’è stato. Chi aveva già gareggiato è rientrato, al villaggio sono rimasti solo gli atleti che dovevano scendere in pista».

Nel 1972 è iniziato anche il rapporto con suo marito. «Abbiamo raggiunto la squadra maschile a Sochi perché c’era stato un errore sulla nostra destinazione. Il destino».

Erminio Azzaro diventa compagno di vita e allenatore. «Non è stato facile. Da una parte era bellissimo perché la partecipazione a quello che fai è diversa se c’è un rapporto che va oltre lo sport, c’è ancora più attenzione. Per contro, quando le cose non andavano bene le arrabbiature si facevano sentire... ma passavano anche alla svelta».

Nello stesso periodo in cui lei si allenava a Roma con Erminio, a Formia c’era anche Mennea con il professor Vittori. Nel libro descrive un velo tra voi che non è mai caduto. «Io sono sempre stata molto timida, non sono quella che fa il primo passo. Mennea era talmente immerso in quello che doveva fare che frequentava solo 2-3 amici. Ci vedevamo in allenamento, ma scambiavamo solo poche parole».

A Mosca 1980 siete stati protagonisti. «Era la nostra Olimpiade, arrivavamo entrambi dal record del mondo. Il desiderio di prendere la medaglia era molto forte. Oggi, ogni anno hanno la possibilità di fare una gara che rimpiazza quella precedente, ma ai nostri tempi era tutto molto più dilatato. Se perdevi un treno, non eri sicura di esserci dopo quattro anni».

Com’è oggi la squadra azzurra di atletica? «Sono bravi e anche un pizzico fortunati, fanno qualificazioni con misure e tempi che ai nostri tempi ce li sognavamo. A Eugene Elena Vallortigara è stata brava, vedere questi giovani fare buoni risultati mi riempie il cuore».

Ha detto che invidia un po’ la generazione di Instagram, avrebbe postato le foto di tutte le sue gare. «Hanno la possibilità di realizzare e conservare una storia fatta di foto e video per qualsiasi gara o evento, è un grande ricordo. Io ho solo poche foto che mi sono state date nel tempo, soprattutto in bianco e nero».

C’è una sua foto che ha fatto la storia: lei che esulta a braccia alzate dopo il salto... «.. e sotto le ascelle si vedono i peli. Non si stava tanto a guardare, gli obiettivi e i pensieri erano altri. Oggi invece sono così perfette, non capisco dove trovino tutto il tempo per l’acconciatura, la manicure...».

A proposito di capelli, lo scorso anno l’abbiamo vista in stile geisha al Circolo degli Anelli per l’Olimpiade di Tokyo. «È nato tutto per caso. Un’acconciatura bizzarra, i primi post sui social, i commenti. È diventato un gioco in cui io e il parrucchiere della Rai abbiamo seguito l’onda».

Quanto si è divertita? «Moltissimo. Alla fine siamo riusciti anche a coinvolgere Jury Chechi nel gioco, all’inizio si chiudeva un po’ come Mennea».

È pronta per Parigi 2024? «Sì, mi piacerebbe anche andarci».