Corriere della Sera, 18 settembre 2022
Il funerale d Lady per salvare la corona
Quando lunedì sfilerà di fronte a milioni di cittadini britannici adoranti, Elisabetta avrà un sorriso sulle labbra. Non beffardo, né compiaciuto. Un sorriso di sollievo. Le verrà in mente un altro funerale, in un altro settembre di venticinque anni fa, un glorious day di sole e luce come solo Londra sa regalare. Nella bara quella volta c’era Diana.
E per lei, Elisabetta, fu il momento più umiliante della sua vita di regina. L’unico nei settant’anni di regno in cui la monarchia abbia davvero rischiato: quel giorno un inglese su quattro si dichiarava pronto a liberarsi dei Windsor.
La regina aveva perso il suo «magic touch», la proverbiale empatia con i sentimenti del suo popolo. Solo un’altra volta le era accaduto qualcosa di analogo: nel 1966, quando tardò ad accorrere personalmente ad Aberfan, un piccolo centro del Galles travolto dal crollo di una miniera, che seppellì nel fango 116 bambini e 28 adulti. Titubò troppo a lungo, incerta se la dignità regale dovesse oppure no smuoversi per un incidente, per quanto terribile fosse stato. In fin dei conti lo stesso errore che commise nel 1997, quando a morire, non in miniera ma all’uscita dal Ritz di Parigi, fu Diana.
Sulla base del fatto che l’ex moglie di Carlo non faceva ormai più parte della famiglia reale, e con la scusa che intendeva tenere i suoi allora giovanissimi nipoti, orfani della mamma, lontani dalle emozioni di Londra, la regina rimase a Balmoral alla notizia della morte di Diana. In quella stessa amata residenza scozzese dove si era manifestata, subito dopo il viaggio di nozze, la prima e radicale incompatibilità tra la giovane, sensibile, moderna sposa e gli strani gusti rustico-aristocratici dei Windsor, appassionati di caccia al cervo, cavalli e cani, pesca e passeggiate nel fango.
Comportarsi «business as usual», come se le questioni di cuore non dovessero interferire con i doveri regali, e restare in Scozia senza profferire parola, fu l’inizio di una tragica incomprensione con il suo popolo; che invece di adottare la abituale compostezza britannica di fronte al dolore, sembrava all’improvviso essere diventato argentino, e trattava Diana come una nuova Evita, travolgendo con una carica mai vista di passione e sentimento ogni pretesa regale di compassato decoro.
Cominciavo proprio in quei giorni il mio lavoro di corrispondente da Londra. E ricordo gli eventi dei giorni che si susseguirono, dalla notte dell’Alma a Parigi fino al funerale di Diana, come una vera e propria rivoluzione popolare. Uno di quei momenti in cui la piazza prende la guida della nazione, e decide per lei. Forse la data di nascita in Europa della democrazia dell’opinione, o se volete del populismo.
«Business as usual»
La regina non lasciò Balmoral per l’ex nuora
Il popolo non la capì,
e la monarchia rischiò
Una specie di Geist, di spirito del tempo, cominciò a soffiare nelle orecchie della gente comune. Il Tube di Londra, che trasportava donne, uomini, mazzi di fiori e pupazzi di peluche verso la residenza di Kensington Palace, funzionò come sistema nervoso della rivolta contro la Casa Reale. Nessuno sa chi fu il primo londinese a notare che su Buckingham Palace non sventolava una bandiera a mezz’asta, scandalizzandosene. Ma sappiamo che al mattino dopo la nazione intera esecrava all’unisono l’affronto a Diana nei titoli cubitali della stampa popolare. La Bbc, che si era fin lì trastullata con l’ufficialità dei comunicati del Palazzo, se ne stupiva autorevolmente a sua volta. I non più tanto sudditi alzarono la voce per chiedere a Elisabetta: perché non torni? Perché te ne resti in Scozia e non sei qui a Londra a soffrire con noi? Dopo tutto quello che avete fatto a quella povera ragazza, oltretutto. E perché non parli, perché non esprimi il tuo cordoglio, perché non mostri affetto e rispetto per la «principessa del popolo»?
Ecco, niente come questo slogan, figlio del genio giornalistico del portavoce di Blair, Alastair Campbell, un uomo che aveva imparato in una lunga militanza nei tabloid come si coltiva l’umore popolare, cristallizzò il confronto tra Diana ed Elisabetta: la prima, eroina nazionale, capace di amare; la seconda, per la prima volta, regina cattiva, fredda e cinica.
Alla fine Elisabetta fece l’unica cosa che poteva fare, il genere di cosa che Maria Antonietta, duecento anni prima a Parigi, non avrebbe mai fatto. Si umiliò. Obbedì a ogni ordine dei tabloid e per conto loro dell’opinione pubblica (e di Downing Street, dove il giovane laburista Blair salvò la Corona con i suoi rispettosi ma decisi «consigli»). Tornò a Londra con la famiglia al completo. Passeggiò tra i fiori deposti davanti al Palazzo, fermandosi a leggere bigliettini spesso intrisi di rabbia contro i reali. Issò la bandiera a mezz’asta su Buckingham Palace, rompendo una tradizione secolare. Concesse i funerali solenni. Parlò alla nazione in diretta tv, vestita di nero. E di Diana disse: «Un essere umano eccezionale..., capace di ispirare gli altri con il suo calore e la sua gentilezza... l’ho ammirata e rispettata per la sua energia e il suo impegno...».
Poi, una scena a sorpresa che non dimenticheremo mai: al passaggio del feretro, a piedi tra la folla, davanti al cancello di Buckingham Palace, piegò il capo.
Lunedì, tornando in quei luoghi, si congratulerà certamente con sé stessa per averlo fatto, riaprendo quel canale con la nazione senza il quale oggi nessuno è sovrano. Fu grazie a quel gesto se oggi, anche lei, è la «regina del popolo». Poi, nella serenità del suo addio, un’ultima ombra fugace: ma Carlo saprà mai diventare un «re del popolo»?