la Repubblica, 18 settembre 2022
La marcia su Roma raccontata da Ezio Mauro
L’ultimo esorcismo di Stato viaggiava in ritardo sul treno speciale diretto a Pinerolo e partito da Roma alle 17.55, con a bordo il presidente del Consiglio appena riconfermato, Luigi Facta. Quasi a fare da scorta al direttissimo, altri due treni correvano sulla stessa rotta, la sera di sabato 23 settembre 1922: trasportavano l’intero governo (meno i ministri Schanzer e Paratore), magistrati, sindaci, prefetti, generali, 400 deputati, 300 senatori, ambasciatori, il principe d’Aragona, l’ammiraglio Cagni, il governatore della Tripolitania conte Volpi, verso la città in festa attorno al banchetto d’onore allestito per celebrare i trent’anni di vita parlamentare del Capo del governo. Un anniversario privato, un appuntamento tra il deputato e il suo collegio fedelissimo, trasformato in una sorta di festa nazionale, giorno del ringraziamento politico. Così, si era finito per esagerare, in una domenica dilatata a dismisura nelle musiche, negli encomi, negli inchini, nei piatti di portata e negli applausi.Prima il corteo si era mosso dalla stazione verso il Circolo sociale per un vermouth, quindi aveva raggiunto il municipio per scoprire una targa che celebrava in Facta «la vita integra sempre, e devota alla patria», mentre la banda degli alpini intonava la Marcia reale e cadeva la tela sul profilo di bronzo compiaciuto del festeggiato.Alla Cavallerizza 43 tavoli (uno riservato alle signore, con donna Maria), 200 camerieri, 3200 commensali e laggiù in fondo, tra i fiori, una grande scritta dorata: “Viva Facta”. Alla frutta, uno squillo di tromba annuncia l’araldo, avvocato Cornetto, per leggere il messaggio di Giolitti («Gli auguri a Facta sono auguri all’Italia che ancora da lui molto si attende») e il telegramma di Vittorio Emanuele III. Facta è in piedi, per primo: «Invito tutti a gridare viva il Re». L’Inno del Piave sale sotto la vetrata e un gigantesco non detto pesa sul salone, trasformando le ultime parole del presidente del Consiglio in uno scongiuro: «Malgrado ogni pena, ogni difficoltà e ogni intemperanza la nostra Patria stupenda è su una via sicura e per nessuna ragione e nessuna insidia può fallire». Brusio. Manca un mese e quattro giorni alla marcia su Roma.«Un funerale di primissima classe», commenterà perfido Mussolini. «Una festa in provincia», aggiungerà Gramsci, notando chequasi tutti gli invitati erano «in abito da sport». E infatti qualcuno approfitta dell’occasione con una gita a 13 chilometri da Pinerolo, verso Cavour, per bussare a casa Giolitti e cercare dal vecchio uomo politico la conferma che qualcosa accadrà. Ma cosa? Giolitti è rientrato dalla Svizzera, per ora vuole continuare a tenersi lontano da Roma e dal suo “spettacolo nauseante”, anche se Mussolini attraverso l’avvocato Giovanni Porzio gli manda “i più deferenti saluti”. Le Camere sono chiuse per la pausa estiva, dovrebbero riaprire il 7 novembre. Il calendario reale procede indifferente alla temperatura politica del Paese, rovente: la regina con la principessa Jolanda è appena tornata da Torre Pellice, dove ha inaugurato un busto di Edmondo De Amicis. Il re è nel castello di Racconigi, dove lo raggiunge l’inquietudine per le voci sui progetti fascisti di marciare su Roma. Cosa c’è di vero? Il sovrano detta un telegramma per Facta, vuole sapere, «non potendo credere a possibilità di eccessi che nuocerebbero a quegli stessi che li compissero».È l’ambiguità di Mussolini, che con una mano libera gli squadristi nelle loro imprese violente fino alla suggestione di una conquista armata del potere, con l’altra si muove nella periferia del gioco parlamentare, fingendo di negoziare accordi di governo: in realtà tenendo d’occhio Giolitti come l’unico serio ostacolo possibile, il grande vecchio che avrebbe l’autorità per sbarrargli la strada, e che portando invece il fascismo dentro un suo governo lo legittimerebbe, istituzionalizzandolo. Lo osserva, studia le sue mosse, teme qualche sorpresa. Dialoga con lui da lontano, mai in prima persona, ma attraverso il prefetto di Milano e intermediari fidati, coi quali si spinge fino a parlare di ministeri. Ma dentro l’animo del Duce si sta facendo strada ogni giorno di più l’idea di impadronirsi dello Stato senza venire a patti con nessuno, tentando il colpo grosso e risolutivo. Da mesi la retorica fascista ha sdoganato il termine “dittatura”, ha lasciato circolare il concetto di “golpe”, ha messo in circolo l’immagine mitologica di una “Marcia su Roma”. Il richiamo continuo a queste soluzioni le ha rese abituali nel lessico estremo del 1922 e le ha trasformate in una variabile tecnica del gioco politico paralizzato, lasciando nell’aria avvelenata del Paese quell’arma innescata a esclusiva disposizione del Duce, arbitro del bene e del male.C’è in Mussolini un richiamo continuo a una sorta di senso comune reazionario, che sposta tutte le responsabilità della crisi italiana sul sistema democratico inceppato, e spinge il fascismo a rompere gli indugi e passare alla forza. «Fate trenta crisi al Parlamento, e avrete trenta reincarnazioni del signor Facta – spiega il Duce —. Allora noi siamo costretti a imboccare un’altra strada. Il nostro gioco ormai è chiaro. D’altra parte non è pensabile più, quando si tratta di dare l’assalto allo Stato, la piccola congiura che rimane segreta sì e no fino al momento dell’attacco. Il contrasto tra l’Italia di ieri e la nostra Italia è drammatico, e l’urto è inevitabile».Poche settimane prima aveva provato ancora a evocare la marcia, riducendola però ad appuntamento ideale, indefinito nel tempo e nello spazio: «Quella marcia è già in atto.Intendiamoci bene, non si tratta della marcia delle trecentomila camicie nere inquadrate nel fascismo, che è strategicamente possibile, ma non è ancora politicamente inevitabile. Che il fascismo voglia diventare Stato è certissimo, ma non è altrettanto certo che per raggiungere l’obiettivo si imponga un colpo di Stato. La marcia su Roma, dunque, è in atto nel senso storico, se non in quello propriamente insurrettivo».Cosa spinge ormai Mussolini a sciogliere il dilemma tra legalità e golpismo che lo tormenta da mesi? Intanto il rapporto politic o di forze mai così favorevole: 322 mila iscritti al Pnf all’inizio dell’estate, con un balzo di centomila nel solo mese di aprile e addirittura 700 mila aderenti ai sindacati fascisti.
Questo arruolamento impetuoso, unito alla distruzione delle organizzazioni socialiste, suggerisce di sfruttare l’occasione prima che in Parlamento nasca qualche iniziativa per riportare l’ordine attraverso un’azione legalitaria. Ma soprattutto l’idea della Marcia permette al Duce di dare un esito alla tensione facinorosa che le camicie nere hanno accumulato con le loro incursioni distruggendo, bruciando, cacciando, manganellando, uccidendo. Un’Italia in nero dilaga da mesi nelle città e nelle campagne, calpestando la legge; una banda militare di partito occupa pezzi di Stato e ne soggioga altri, mentre cerca uno sbocco definitivo, che inveri l’autocelebrazione rivoluzionaria. Che fare dunque di questa nuda espressione fisica che divora la politica? Sempre più, nella mente di Mussolini, la Marcia diventa la soluzione, perché contiene in sé la spallata decisiva al sistema traballante, l’esito di una mobilitazione selvaggia che ora ha bisogno di varcare una soglia simbolica per ultimare il suo compito, e la cornice memorabile che può inquadrare nel tempo l’avventura fascista trasformandola in epica.D’altra parte Mussolini vede che davanti alla furia squadrista ciò che resta dello Stato arretra. I giudici rimandano liberi gli autori delle violenze quando vengono denunciati, i questori salvo poche eccezioni ritirano le guardie appena arrivano i manipoli sulle piazze, i prefetti si piegano ai ras che occupano i municipi cacciando i sindaci eletti, il governo tace e in silenzio completa l’opera nominando i commissari alla guida dei Comuni rossi spodestati. Una speciale “commissione” fascista si presenta il 14 settembre nella casa di Varazze dove Giacomo Matteotti è in vacanza con la moglie Velia e i tre figli e gli impone di lasciare subito la città, accompagnandolo come un appestato alla stazione.A Cremona l’onorevole Guido Miglioli deve rimanere chiuso tre giorni negli uffici al secondo piano della prefettura, assediata dai fascisti: scapperà di notte, salendo di corsa con la valigia su un autocarro che sosta un attimo in via Biblioteca e subito riparte verso Parma inseguito dagli spari delle camicie nere. Il ministro degli Interni Paolo Taddei il 14 settembre spedisce un dispaccio ai prefetti segnalando che «attentati e offese membri Parlamento non accennano cessare. Raccomando curare personalmente che tutti siano repressi massima severità art. 187, 194, 195, 200 codice penale»: il ministro deve ricordare ai prefetti smemorati le norme di legge che configurano i reati. Ma le risposte sono drammatiche. Col telegramma numero 23944 del giorno dopo il prefetto di Brescia De Martino segnala «l’azione di un ristrettissimo gruppo di noti industriali aventi sede Milano arricchitisi straordinariamente durante periodo bellico, che avrebberoprovveduto per le spese iniziali del movimento, mentre singoli componenti, guidati da motivi di personale vendetta, avrebbero versato in alcune occasioni somme notevoli». Conferma il prefetto di Genova Poggi nel telegramma 23996: «Purtroppo in alcuni industriali e commercianti non sono sbolliti certi entusiasmi fallaci, e continuano a contribuire nelle spese». Poi, il 22 settembre alle 13.45 il telegramma 22162 del prefetto di Milano arriva al Viminale con la dicitura “Assolutamente personale per il presidente Facta”: «Da fonte riservatissima risulterebbe che il movimento fascista nel Mezzogiorno è in pieno sviluppo, mentre il mondo finanziario e industriale è pressoché tutto fascista, o almeno rassegnato – scrive Lusignoli —. Un altissimo generale sta compiendo opera di propaganda. Si afferma sempre più la questione della preparazione dello Stato per fronteggiare qualsiasi evenienza. Deferenti cordiali saluti».Ipnotizzato, lo Stato si sta arrendendo. I partiti sono svuotati o allineati. A metà settembre don Sturzo ha ricevuto una lettera firmata da otto senatori del gruppo popolare che è un vero e proprio altolà preventivo. Caro Professore, scrivono i senatori cattolici, il Partito popolare è nato per incoraggiare l’armonia delle classi e non può e non deve cercare alleanze e intese con partiti “incompatibili” con i suoi valori: vale a dire i socialisti. «Certi connubi ripugnanti coi principi più sacri non devono essere ammessi e tanto meno cercati. Intese parlamentari ibride con chi ha per divisa “senza Dio, senza patria, senza famiglia” sarebbero un errore e corromperebbero l’anima del nostro popolo». I Popolari, dunque, vedono l’unico pericolo a sinistra, senza accorgersi che il governo Facta è l’ultimo sottile velo che separa il Paese dalla dittatura. I liberali sono convinti che coinvolgere i fascisti nel governo sia il male minore. I socialisti marciano ormai divisi verso il congresso della sicura scissione, dopo la separazione a Livorno dai comunisti, appena un anno prima: il gruppo parlamentare in mano ai riformisti è già autonomo e non risponde più alla direzione del partito. I massimalisti di Serrati guardano i “destri” che se ne vanno e li accusano di cercare il potere, ma non vedono l’ombra fascista che sta per oscurare l’Italia. «Noi – dice il loro manifesto – combattiamo l’adescamento collaborazionista della borghesia, e vogliamo invece promuovere il fronte unico politico dei partiti sovversivi italiani». Un alfabeto fuori corso, separato dall’urgenza della realtà.Questo logoramento paralizzante della macchina dello Stato finisce per disconnettere il governo dal Paese. Le leve del comando sono saltate e il tentativo di Facta di riprendere un controllo del territorio va a vuoto. Il 16 il ministro Taddei spedisce una circolare a tutti i prefetti del Regno denunciando le occupazioni fasciste dei municipi, che costringono le giunte rosse alle dimissioni: «Si raccomanda una maggiore diligenza nella denuncia di questi delitti che offendono la libertà della funzione amministrativa, fondamento di ogni libertà politica». Si aggiunge una nota polemica del ministro della Giustizia Alessio: «Prego di raccomandare ai signori prefetti e questori di astenersi, dopo aver fatto la denuncia, dall’invocare che l’autorità giudiziaria soprassieda all’emissione del mandato di cattura, per ragioni di turbamento dell’ordine pubblico, com’è accaduto a Livorno».È un disarmo unilaterale dell’apparato statale, una consegna all’ineluttabile. Il Paese si sta inabissando, consegnandosi. Lo sanno gli squadristi, che spadroneggiano fuorilegge nelle grandi e nelle piccole trasgressioni: a fine mese Taddei deve dare ordine di concentrare negli scali ferroviari “il maggior numero di militi” perché «da qualche tempo gli aderenti al partito fascista si muovono in massa sulle ferrovie rifiutandosi di pagare l’importo del biglietto. È necessario che siano denunciati immediatamente e tratti in arresto». Tutto inutile, nessuno ferma più il treno di un’eversione che viaggia gratis.Dunque è questo il momento di agire. Il Duce sa che si gioca tutto, anche tra i suoi uomini. I gerarchi sono divisi, Grandi con Acerbo vuole portare il fascismo al potere dall’ingresso principale del Palazzo, mentre Balbo e soprattutto il segretario del partito Michele Bianchi pensano che la spinta rivoluzionaria debba prevalere. Mussolini tace, perché vuole ciò che in quel momento sembra impossibile a tutti, lui per primo: una rappresentazione insurrezionale e una sostanza legalitaria; una vittoria politica in una scenografia eversiva. Paura personale, ambiguità, incertezza tra le due anime che lo dominano? Quel che è certo è che il Duce comincia a separare le responsabilità scaricando gli oneri e le implicazioni del comando militare della Milizia fascista su tre gerarchi, Italo Balbo, l’uomo delle occupazioni feroci nella Padania, Cesare Maria De Vecchi, legato al Re, e il generale Emilio De Bono, che sfila con la sua barba bianca, la testa calva, in mezzo ai giovani squadristi, “fascista fino al midollo delle ossa”. Con l’arrivo di Michele Bianchi, saranno i Quadrumviri, col compito di disciplinare e inquadrare le camicie nere nell’esercito privato del Fascio, sgravando Mussolini dai rischi legati alla conduzioneoperativa della Marcia, e restituendolo a un ruolo di guida esclusivamente politica, libero da incarichi nel caso l’esito dell’operazione fosse negativo, e si arrivasse a un “rompete le righe”.A tormentare il Duce è la resistenza di zone d’Italia ancora non domate, Parma, Civitavecchia, Torino, Treviso: ma soprattutto sono i dubbi sull’esercito, certamente attraversato da simpatie d’ordine per il fascismo, ma legato al Re e fedele alla dinastia. E sul Re resta un interrogativo fascista: in sostanza, un monarca costituzionale dovrà convivere con un momento rivoluzionario. C’è da fidarsi?Nel nuovo regolamento scritto dai Quadrumviri nel ritiro di Torre Pellice, la Milizia fascista che si consacra «al servizio di Dio e della Patria per donare all’Italia una nuova virilità maschia», non giura fedeltà al Re ma garantisce «obbedienza cieca, assoluta e rispettosa al Capo Supremo». Spunta questa figura extrapolitica, dallo statuto eroico, dal destino fatale, la cui parola «è luce e conforto», come garantisce in un telegramma riconoscente De Vecchi, assicurando «fede, umiltà e disciplina». Lo ripetono nel giuramento di Udine le camicie nere il 20 settembre. Il Duce si mostra sulla porta dell’Albergo Italia con le mani sui fianchi poi, quando le fanfare intonano gli inni patriottici, cammina sotto un arco di gagliardetti. Parla a scatti, col pugno chiuso, in un’ora «decisiva per la Nazione», come annunciano i manifesti sui muri. Sa di avere un messaggio di rassicurazione e di intimidazione per il Re, e di conseguenza per gli italiani monarchici e soprattutto per l’esercito: la fine della pregiudiziale repubblicana del fascismo. «È possibile – si domanda Mussolini – una profonda trasformazione del nostro sistema politico senza toccare la monarchia? Io penso che si possa rinnovare il regime lasciando da parte l’istituzione monarchica. In fondo lo stesso Mazzini non ha ritenuto incompatibili le sue teorie repubblicane col patto monarchico dell’unità italiana. D’altronde qualche punto fermo bisogna lasciarlo perché non si dia al popolo l’impressione che tutto crolla e tutto deve ricominciare».Quindi, l’avvertimento al Quirinale: «Io penso che la monarchia non abbia alcun interesse a osteggiare la nostra rivoluzione. Se lo facesse diverrebbe subito bersaglio, e certo non potremmo risparmiarla perché sarebbe per noi una questione di vita e di morte». Infine, una prefigurazione del ruolo iconico e disarmato del Re: «In un certo senso vediamo un monarca non sufficientemente monarca: la monarchia rappresenta la continuità storica della Nazione, un compito bellissimo, di un’importanza storica incalcolabile». Un Re simbolico, dunque, rappresentante nella continuità dinastica del divenire della Nazione: nient’altro. E nel vuoto tra la Nazione e il sovrano, soltanto lui, il nuovo Capo che non per caso è ormai definito “Supremo”. Il giorno dopo lasi accosta al discorso del Duce «con istintiva ripugnanza morale per le capriole di Mussolini. Ora vedremo se il popolo italiano si farà decapitare o se saprà andare avanti con la sua testa, con la sua coscienza e la sua libertà».Ma lo spazio di libertà sta poco per volta assottigliandosi. Rimbalzano da Roma voci di un bando contro Turati, Treves e altri settanta socialisti: non c’è conferma, ma poiché ogni limite è saltato cresce il panico, perché tutto è ormai possibile. A Terni gli squadristi bruciano due Camere del lavoro, il Circolo dei reduci, il Centro studi sociali, la sede comunista, bastonano chi resiste. A Firenze un manipolo fa il giro di tutte le edicole del centro per sequestrare le copie dell’Asino, il giornale umoristico deisocialisti. A Torino l’onorevole socialista Adelchi Baratono viene aggredito da una squadra fascista davanti alla stazione di Porta Nuova, preso a calci e spintoni, gettato a terra, derubato della borsa e degli occhiali e infine sospinto a forza tra urla e insulti sul primo treno in partenza dalla città. Di fronte all’evidenza, il governo tentenna. Il ministro della Giustizia Alessio ha predisposto un decreto legge che consente l’arresto per i capi di bande militari private, la prima vera misura di contrasto radicale allo squadrismo, ma il Consiglio dei ministri non lo approva.Tutto sembra vacillare, come se settembre fosse soltanto un passaggio frettoloso verso l’epilogo che l’Italia ha già autorizzato, giorno dopo giorno. Nell’incertezza ritorna l’eterna invocazione a Giolitti, ormai visto come un demiurgo che può piegare la crisi. Curiosi, messaggeri, intermediari vanno e vengono da Cavour, riportando a Roma un’unica frase dello statista ottantenne: «Non si può dimenticare che il fascismo esiste». Sembra un monito a evitare la guerra civile, incanalando il fascismo nell’alveo dello Stato sotto la guida sicura dell’esperienza. È la richiesta degli industriali, degli agrari, dei liberali, dei militari, della parte più moderata dei popolari, in fondo anche della Chiesa, e la filosofia di Giolitti trasforma questa aspirazione in una formula, mescolando come sempre realismo e cinismo: «Un sarto che deve tagliare un abito per un gobbo, sa che deve fare la gobba anche all’abito».Ma il fascismo è già altrove, la sua dinamica antidemocratica è autonoma, ormai esterna al sistema. Trentamila camicie nere sfilano a Cremona davanti a Mussolini con la consacrazione dei gagliardetti di 54 sindacati contadini. «Se si rende necessario un colpo risolutivo – annuncia il Duce – tutti, dal primo all’ultimofaranno il loro dovere perché l’Italia diventi fascista, e guai al disertore o al traditore, che sarà colpito». Ormai è una rincorsa verso Roma, l’appuntamento sacro, la meta finale, il destino della rivoluzione: «La lotta non può arrestarsi perché è destinata a purificare la nazione dall’infezione marxista – scrive ilPopolo d’Italia— e a portare al governo una nuova classe politica contro quella liberale e democratica esaurita e inquinata dal bacillo socialistoide».Ma intanto il Pnf convoca a Roma per il 15 ottobre tutte le camicie nere «provviste di cavalcatura, per costituire le squadre fasciste di cavalleria». E i socialisti rivelano che il re, preoccupatissimo, ha convocato lo stato maggiore domandando «una conferma dell’impegno solenne di fedeltà». Ma aggiungono che «i giuramenti, più si moltiplicano e più perdono di valore».Prova a sostenere l’edificio statale in rovina il maggior generale Emanuele Pugliese, comandante di divisione a Roma, segnalando ai comandi il 27 settembre, con una lettera di allarme, che nel caso di una marcia sulla capitale le misure di contrasto predisposte appaiono del tutto inadeguate, visto che sono state decise per fronteggiare eventuali moti interni alla città e non una rivolta nazionale. «Qualora un movimento porti a convergere su Roma forti masse di rivoltosi, l’affermazione dell’imperio della legge da parte delle Forze Armate riuscirebbe molto sanguinosa». Occorre dunque un piano generale di difesa per bloccare l’afflusso delle squadre su Roma occupando i principali nodi su rotaia, realizzando sbarramenti ferroviari a Civitavecchia, Viterbo, Orte, Avezzano, Roccasecca, Sezze, più due linee di barriera stradale attorno a Roma, la prima a 80-100 chilometri dalla capitale, la seconda a 30-40 chilometri. Dunque una difesa è ancora possibile se lo Stato prende coscienza del pericolo e reagisce alla minaccia con le contromisure militari.Il Duce sembra scrutare i segni bizzarri dei tempi. Il costo della vita galoppa per i principali generi alimentari, la farina, il pane, l’olio d’oliva, il lardo, il riso, la pasta, il formaggio, la carne, le verdure, la salsa di pomodoro, la trippa e le uova, e diminuisce soltanto il prezzo del burro, delle patate, del merluzzo e del vino. Ma la vera sorpresa è l’umiltà improvvisa e la devozione inattesa di D’Annunzio, che riavutosi dalla caduta esce dal Vittoriale per la sua prima visita, entra a capo scoperto nell’antica abbazia benedettina di Maguzzano, si genuflette nella cappella, bacia il glorioso crocifisso bizantino e ai monaci trappisti d’Algeria confida «di volersi d’ora in poi considerare un terziario francescano». Finché, fragorosamente, un braccio della statua di Dike – figlia divina di Zeus e di Temi, signora della giustizia che s’innalza sopra l’ingresso del Palazzaccio a Roma – si stacca improvvisamente alle otto del mattino e crolla in strada davanti al ponte Umberto, dopo aver colpito una donna di passaggio. Tutti alzano lo sguardo verso la raffigurazione esplicita della giustizia monca.Fingendo di attraversare settembre come un mese normale, Mussolini continua a smentire le voci sulla Marcia, come se ubbidisse alle regole cospirative di una società segreta, entra e esce dal paesaggio eroico che lui stesso ha predisposto per il passo finale.Si mostra in pubblico in cravatta scura, uscendo di casa saluta le camicie nere che a Milano dormono sul tetto per sicurezza e a ogni sospetto lanciano un segnale d’allarme intonando sempre lo stesso canto: «L’ardito è bello, l’ardito è forte, piace alle donne, paura non ha». Lo scortano, ma guida personalmente la sua prima automobile, con cui arriva e parte dalle riunioni di partito. È una Bianchi modello Torpedo di seconda mano, a quattro posti con gli strapuntini. Dopo una direzione del Fascio invita Italo Balbo a salire per una corsa: «Gita emozionante – dice il quadrumviro —, trovo che guidi con un’audacia straordinaria, a velocità troppo forte e qualche volta rasenta paurosamente i tram. Ma è preciso e sicuro: del resto andrei con lui in capo al mondo, e oltre». Ma bisogna aspettare l’arrivo, quando l’auto finalmente si ferma e Balbo che da giorni «respira l’aria dell’insurrezione, anche se nessuno sa cosa accadrà», si rivolge al suo capo con l’unica domanda che ormai conta:«Siamo dunque alla vigilia?» Il Duce risponde con due sole parole: «Alla vigilia».