La Stampa, 18 settembre 2022
Intervista a Iya Kiva
Dentro di me, dove un tempo c’era la lingua russa, c’è un animale morto, puzzolente e putrefatto». Dal 2014, e ancora di più dal 24 febbraio scorso, Iya Kiva convive con il cadavere di una parte di sé. E le sue parole esprimono un dolore lacerante. Poetessa e traduttrice ucraina originaria di Donetsk, da quando Mosca ha invaso il suo Paese non scrive più nella sua prima lingua: «La mia mente non riesce più a virare nella direzione russa. Per scrivere devo immaginare un interlocutore, qualcuno con cui condividere lo stesso spazio». E ora non è più possibile farlo. «Dopo la Rivoluzione della dignità ho iniziato a scrivere in ucraino perché per me era una manifestazione di appartenenza allo spazio con il quale ero solidale. E se nel 2014 ho dovuto abbandonare la mia vita a Donetsk, il 24 febbraio 2022 l’esercito russo mi ha tolto definitivamente la mia lingua madre». Kiva risponde alle domande scrivendo durante il lungo viaggio che l’ha portata da Leopoli, dove vive, a Pordenone, dove oggi, con la collega Halyna Kruk, a Pordenonelegge presenterà Poeti d’Ucraina (Mondadori): un’antologia intensa, a cura di Alessandro Achilli e Yaryna Grusha Possamai, nata in tempo di guerra e che ripercorre sessant’anni di poesia ucraina segnati dal rapporto con Mosca, dalle liriche di Vasyl’ Stus, morto in un gulag, ai versi scritti sotto i missili di Putin.
Parafrasando Adorno, è possibile la poesia dopo Bucha?
«Quando vedi le immagini di Bucha, Borodjanka, Mariupol, Izjum e Irpin ti interroghi, perché c’è sempre il rischio dell’estetizzazione della guerra o dell’appropriazione dell’esperienza altrui. Ma la finalità della poesia che si scrive adesso è quella di testimoniare e questo tipo di poesia non viene percepito come un atto estetico, ma come un atto civile, un dovere nei confronti del presente e del futuro dell’Ucraina».
Ha lasciato Donetsk per Kiev, e poi per Leopoli. Cosa significa per lei fare la volontaria?
«Leopoli è uno dei centri principali per i volontari. A volte veniamo attaccati con i missili, ma per fortuna non spesso come altrove. Vivere qui, rispetto ad altre zone dell’Ucraina, significa imitare una sorta di normalità, anche se le nostre vite ruotano esclusivamente attorno alla guerra, per aiutare i nostri soldati e assisterci l’un l’altro. Io da qualche mese abito a casa di una donna che si chiama Anna, che mi ha preso con sé senza chiedermi un soldo e senza che ci conoscessimo. Mi dice: “Non voglio arricchirmi con la guerra”. E io ho la possibilità di fare qualche offerta all’esercito invece di spendere i soldi in affitto. Nei primi mesi facevo i turni alla stazione aiutando i rifugiati, ora mi occupo dei teli mimetici militari e svolgo compiti organizzativi. I miei giorni si dividono tra il volontariato e l’attività letteraria. Ognuno qui fa moltissimo, piccoli gesti, ma che ci danno la possibilità di sopravvivere e arrivare alla vittoria».
Gli intellettuali hanno un dovere nei confronti della società?
«A giudicare dal numero di artisti che stanno combattendo nelle Forze armate ucraine o che si occupano di volontariato civile e militare direi che percepiscono se stessi innanzitutto come cittadini ucraini. E gli ucraini si rendono conto che la vittoria in questa guerra è una questione di sopravvivenza, che riguarda il futuro non solo dell’Ucraina ma di tutta l’Europa. “Stand with Ukraine” non basta, dev’essere “Win with Ukraine”. Una vittoria militare, culturale, mediatica, economica. Per un certo periodo, il tema bellico rimarrà il perno attorno a cui ruoterà la letteratura, lo trovo naturale. La cultura combatte sempre per limitare la barbarie, nell’eterna lotta tra bene e male».
Crede che sia giusto tagliare le relazioni culturali fra Europa e Russia, o la cultura è universale e deve sempre unire? E cosa pensa del boicottaggio della cultura russa?
«Dirò qualcosa di abbastanza controverso: prima di costruire dei ponti con il mondo civilizzato, soprattutto nell’ambito della cultura, la Russia deve ripulirsi dal sangue di cui si è macchiata. Il cristianesimo dispone di pratiche di pentimento, mentre il mondo secolare può riflettere su come la Russia – che ha sempre usato la sua cultura come una matrioska che copre la violenza – si sia trasformata in un Paese barbaro. Da questo punto di vista il boicottaggio della cultura russa può essere percepito non solo come un atto di solidarietà nei confronti dell’Ucraina di oggi, non solo come un paradigma etico di reazione all’aggressione, ma anche come la possibilità di dare alla Russia una chance storica di intraprendere un percorso di pentimento, sui crimini del XX secolo e del XXI, l’Ucraina ma anche la Georgia, la Siria e la Cecenia. Invito gli attori culturali di tutto il mondo a pensare a un boicottaggio della cultura russa come una sorta di sanzione culturale che spinga gli intellettuali russi a smettere di farsi passare come vittime sui palcoscenici di tutto il mondo e a iniziare invece a parlare con la società russa. Solo così la Russia può cambiare. Perché se non cambierà la società russa – non solo il regime di Putin – fra qualche anno l’Ucraina sarà vittima di una nuova aggressione. Se i crimini della Russia, soprattutto i crimini contro l’umanità, cioè lo sterminio di noi ucraini dovuto solo al fatto che abbiamo un’identità ucraina, non testimoniassero l’abisso che passa tra la Russia e i Paesi che si attendono ai valori della libertà e della democrazia, allora si potrebbe parlare di universalità della cultura. La guerra – sostenuta dalla maggioranza dei russi – è la dimostrazione diretta della sconfitta della cultura russa, che è assolutamente impotente, incapace di fermare la disumanizzazione dei cittadini russi, il loro imbestialirsi. “Se questo è un uomo”, ha scritto Primo Levi. “Questi sono uomini?”, non puoi fare a meno di chiederti guardando quello che fanno. E non mi riferisco solo a chi esegue gli ordini. Perché non è Putin che ha creato la società russa aspettandosi qualcosa di concreto da essa, è il contrario: la società russa ha posto le basi per Putin e per la sua politica. Dove termini la cultura russa e dove inizino le manie di grandezza imperiali io non lo so. Ma so che la cultura russa sa separare (divide et impera), proclamando che chiunque non le appartiene è inferiore. Quello che a mia volta chiedo è: e l’Europa vuole decidersi a costruire ponti con l’Ucraina?».
Nelle sue poesie parla di rifugiati e sradicamento. Come sarà per gli ucraini ricostruire il Paese?
«Tutti gli ucraini che hanno sentito la guerra sulla propria pelle non potranno più sbarazzarsene. Continueremo a lungo a navigare nelle acque torbide della guerra, come in un pozzo profondo dal quale non riesci a risalire. Però rimane il fatto che la vittoria che tutti aspettiamo, perché noi ucraini non abbiamo altra scelta che vincere, ci confermerà che non siamo solo le vittime di un’aggressione ma gente di uno spirito incredibile. Non sarà difficile per persone così ricostruire il proprio Paese».
Qual è il ruolo della letteratura ora? Si riesce a leggere durante la guerra?
«La letteratura è il modo che abbiamo di capire la realtà. Però gli ucraini adesso non riescono a leggere, perché la guerra occupa tutto il nostro spazio. Io ho problemi di concentrazione e memoria, leggere è un compito doloroso fisicamente. Mi costringo a farlo per mantenere una forma mentale. Poesie. L’unico libro di prosa che sono riuscita a leggere è I Blame Auschwitz di Miko?aj Grynberg. L’ho letto in polacco e ho capito che leggere in lingue straniere mi è più facile, crea una distanza di sicurezza. È un esempio di quanto possa essere nociva un’esperienza traumatica delle dimensioni dell’Olocausto, non solo per i testimoni oculari ma anche per i loro figli e nipoti. Tanti eredi dei sopravvissuti dicevano che Hitler ha vinto la guerra perché loro non hanno mai avuto una vita normale». —