La Stampa, 18 settembre 2022
A Samarcanda Putin ha perso
A chiudere la difficile settimana di Vladimir Putin sono arrivate le parole del presidente americano Joe Biden, che lo ha messo in guardia dall’usare armi chimiche o nucleari sul fronte ucraino: «Non farlo, non farlo – ha detto nel corso di un’intervista ieri alla Cbs immaginando di rivolgerglisi direttamente -. Se lo facessi il volto della guerra cambierebbe». Il presidente americano non è entrato nei dettagli di quale potrebbe essere la risposta degli Stati Uniti qualora l’eventualità nucleare si presentasse, ma ha assicurato: «Sarebbe consequenziale». Per non parlare del fatto che una decisione del genere renderebbe Putin e la Russia «ancora più paria nel mondo».
Poiché il Pentagono non ha al momento individuato elementi che facciano pensare a un’evoluzione nucleare del conflitto – al massimo l’ipotesi circolata in ambienti militari è quella di un possibile ricorso ad atomiche tattiche a corto raggio – le parole di Biden vanno in realtà a siglare lo stato delle cose sul terreno di guerra. Da giugno infatti, con la decisione di inviare a Kiev sistemi missilistici di artiglieria ad alta mobilità e di potenziare l’addestramento sull’utilizzo della nuova strumentazione, l’asse dei combattimenti si è decisamente spostato a favore della parte ucraina. E questo ha provocato un effetto domino sulla situazione di isolamento politico della Russia, che è andato in scena, platealmente, al summit di Samarcanda del 15 e 16 settembre.
Qui i giganti asiatici presenti – in particolare Cina e India – non si sono spesi a sostegno di Vladimir Putin nella maniera in cui lui si aspettava, e malgrado il servizio stampa ufficiale russo abbia minimizzato le divergenze, la missione di recupero consensi non può dirsi riuscita.
Tra i dettagli trapelati al termine del summit, ci sono le attese a cui il presidente russo è stato sottoposto prima dell’inizio dei vari incontri bilaterali. Finiti i tempi in cui gli era concesso di presentarsi con almeno quarantacinque minuti di ritardo o di far attendere i suoi ospiti in estenuanti anticamere. Stavolta gli scatti impietosi del cerimoniale uzbeco, che ha organizzato il summit, lo hanno ritratto da solo, di fronte a una sedia vuota, in attesa che i leader di Kazakhstan, Uzbekistan e Tagikistan arrivassero per stringerli la mano. Le repubbliche dell’Asia Centrale sono quelle che hanno espresso maggiori preoccupazioni alla Cina per le conseguenze della guerra in Ucraina: temono di essere le vittime successive delle manie imperialiste del Cremlino e non si sentono più sicure nelle loro politiche di difesa e di controllo del territorio. Anche Erdogan lo ha fatto aspettare per diversi minuti, e anche con la Turchia i rapporti si sono raffreddati a causa delle tensioni nel Caucaso meridionale. L’attacco dell’Azerbaijan all’Armenia non si sarebbe probabilmente verificato in presenza di una Russia non indebolita sul fronte ucraino che fosse stata in grado di vigilare sulla sicurezza di Erevan. Erdogan non ha fatto mistero delle divergenze che si sono registrate anche sulla questione di Cipro Nord e sul rifornimento di fertilizzanti e derrate alimentari dall’Ucraina, che si ripercuotono su tutti i commerci del Mar Nero.
Ma gli imbarazzi maggiori si sono registrati con India e Cina, che sono tra l’altro divise su diversi dossier – dal controllo delle sfere d’influenza n Asia Centrale a quelle dell’Indo-Pacifico – ma che si sono trovate in sintonia proprio nella valutazione della guerra in Ucraina: «Non è questo il tempo di fare la guerra», ha detto Modi; «Capisco le preoccupazioni della Cina», è stato costretto a rispondere Putin a Xi di fronte ai ragionamenti del cinese sull’importanza di un mondo pacificato. Il ritorno a Mosca è dunque avvenuto sotto il segno di una grande debolezza, e il rischio adesso per lui è che si verifichi anche un drastico crollo del consenso interno. Nella stampa indipendente e nei canali Telegram più frequentati si cominciano ad accumulare meme e video che ridicolizzano la solitudine del presidente russo. E si cominciano a leggere sempre più articoli che si interrogano sulle modalità di un impeachment del presidente. Citatissimi gli esempi che tra il 1993 e il 1999 tentarono di rimuovere Boris Eltsin. Ma fallirono tutti. —