Il Messaggero, 18 settembre 2022
Breve ritratto di De Gaulle
Se Napoleone si sentiva l’erede di Alessandro, di Cesare, di Carlomagno, De Gaulle si sentiva l’avo di Napoleone.
Parlava di sé in terza persona, tutti si rivolgevano a lui con il voi e la moglie, senza ironia, lo chiamava mon général. Ogni tanto, nei discorsi, nei problemi, nei proclami, negli appelli (la sua specialità) usava il pluralis maiestatis e nessuno se ne meravigliava.
Tutto in lui era superlativo. La statura, innanzitutto: alto quasi due metri, i servizi di sicurezza non riuscivano a capire come un simile bersaglio non fosse mai stato colpito da quegli estremisti di destra che, nel settembre 1961, cercarono di farlo saltare in aria con l’auto sulla quale viaggiava. Un attentato cui miracolosamente scampò: Une plaisanterie de mauvais gout, uno scherzo di pessimo gusto, lo definì De Gaulle.
Tutto in lui era superlativo.
Figlio di un professore di filosofia, studiò dai gesuiti (come Voltaire e tanti deisti), ma il loro lassismo, il loro possibilismo, la loro passione per la casistica non lo contagiò. Si sentiva l’Unto del Signore o, forse, il Signore stesso. Si rivolgeva ai contemporanei come si sarebbe rivolto ai posteri. In bocca a lui la Francia era la Sua Francia.
La salvò in almeno due occasioni. La prima, il 18 giugno 1940, anniversario della battaglia di Waterloo e della caduta del Grande Corso, quando dai microfoni londinesi della Bbc, lanciò lo storico appello: Il nostro Paese ha perduto una battaglia, non la guerra.
La seconda, nel 1958, quando, in una Francia spossata e svenata dall’interminabile guerra di Algeria e dalla rissosità dei partiti, il presidente Coty lo invitò a formare un nuovo governo. La prima volta salvò la sua Nazione dalla Germania. La seconda da se stessa, e l’impresa non fu meno disperata.
Sugli scudi di quei generali che poi liquiderà, coronò il sogno di una monarchia repubblicana dove De Gaulle doveva rendere conto solo a De Gaulle, dal momento che lui e la Francia, si identificavano.
Governò il suo Paese con concisione, precisione, decisione, i tre vitali requisiti di chi esercita il comando.
Il suo Moi, il suo Nous divennero, se possibile, ancora più maestosi e ingombranti.
I francesi pendevano dalle sue labbra, infiammati dai suoi lunghi discorsi che (come Mussolini) imparava a memoria senza omettere una virgola.
Il suo piglio marziale e paternalistico insieme, la sua prosopopea da Re Sole, l’afflato oracolare delle sue profezie incutevano soggezione, esaltando l’orgoglio di un popolo più sciovinista che nazionalista. Mai autoculto della personalità trovò espressione più solenne e marmorea.
Quando la Francia, stanca di tanto aulico autoritarismo o, forse, solo desiderosa di cambiamento e di novità, bocciò il suo ultimo referendum, lui, con la glaciale alterigia di un eroe plutarchiano, tornò nel bucolico eremo di Colombey-les-deux-Eglises. In ogni caso – disse, congedandosi da un Paese che lo aveva più rispettato che amato – non dirò più nulla. A differenza di tanti nostri politici che cominciano a parlare quando non hanno più niente da dire.
All’Eliseo, dopo di Lui, s’avvicenderanno molti altri politici, alcuni, grandi e discussi come Mitterrand, altri piccoli pony notturni come Hollande.