Il Messaggero, 18 settembre 2022
Intervista a Carlo Verdone
Il box office è in affanno, lo streaming prende sempre più piede, i cinema chiudono. Ma c’è chi, nonostante i danni prodotti dalla pandemia, ha il coraggio – e la fantasia – di andare in controtendenza e addirittura rilanciare scommettendo proprio sulla sala: nel centro di Roma, nell’omonima piazza in cima a via del Tritone, alla fine di ottobre (dopo aver ospitato gli eventi del Mia, il mercato dell’audiovisivo) riaprirà il Barberini completamente rimesso a nuovo. La ristrutturazione radicale del locale, un investimento imponente, è stata decisa e portata avanti «malgrado tutti gli intoppi creati dalla burocrazia» da Caterina e Francesca Saviotti, appartenenti alla famiglia proprietaria storica del cinema disegnato negli anni Trenta dall’architetto Marcello Piacentini. Il Barberini rinato avrà 6 sale, che nel 2023 diventeranno 7, tecnologie di ultima generazione (audio Dolby Atmos, laser e 4K), schermi ad altissima risoluzione, ampie poltrone nei colori pastello, arredi di design, ristorante, spazi per mostre, concerti e spettacoli, una terrazza per feste ed eventi. E, sorpresa, una delle sale sarà intitolata a Carlo Verdone, popolarissima espressione del cinema, della cultura, dello spirito di Roma.
Che effetto le fa, Verdone?
«Sono onorato, quasi intimidito. Mi pare addirittura troppo...Non hanno aspettato che fossi morto per dedicarmi questo omaggio, così posso godermelo da vivo. Scherzi a parte, sono felice di far parte di un progetto che contribuirà a riportare la gente fuori di casa dopo la pandemia».
Nei mesi dominati dalla minaccia del Covid si è sentito isolato anche lei?
«Certo, e ho fatto le spese di quel periodo terribile perché durante il primo lokcdown del 2020 il mio film Si vive una volta sola è stato bloccato a 48 ore dall’uscita. Da allora in poi la mia vita sociale si è rarefatta. Ancora oggi vedo meno amici di un tempo mentre la città appare vuota, silenziosa, scarsamente illuminata, triste. Alziamoci dal divano di casa, smettiamo di comunicare solo digitalmente, torniamo al cinema. Ritrovare il contatto umano è fondamentale».
Basta rinnovare le sale per convincere il pubblico a frequentarle come un tempo?
«Ci vogliono ovviamente anche dei buoni film. Tutti noi cineasti abbiamo ora la responsabilità di pensare storie destinate al grande pubblico, non soltanto a un gruppo mirato di spettatori. E poi bisognerà regolamentare i rapporti tra sale e piattaforme, in modo da non penalizzare le prime».
C’è qualche ricordo che la lega al Barberini?
«Anno 1982, la prima di In viaggio con papà, il film che avevo girato con Alberto Sordi. Fuori, nascosti dietro un’edicola, Albertone e io spiavamo l’andirivieni del pubblico e l’andamento degli incassi. Dopo lo spettacolo delle 20.30 che aveva avuto risultati così così, andammo a cena e io non ho mai visto Sordi tanto teso. Era sulle spine e si rasserenò soltanto quando scoprimmo che alle 22.30 il film aveva sbancato il botteghino».
E cosa fece?
«Mi abbracciò esclamando: A Carlé, in questo mestiere si ricomincia ogni volta. Fui sorpreso di scoprire che quel gigante del cinema era vulnerabile proprio come me, allora alle prime armi».
A che età ha cominciato ad andare al cinema?
«Da bambino. Mio padre Mario mi portava a vedere i western e poi, nei momenti più caldi, si alzava in piedi fingendo di sparare verso lo schermo mentre da dietro gli gridavano: Seduto, che nun se vede gnente!».
Per caso qualche suo amore è nato nel buio della sala?
«Beh, qualche approccio da ragazzino l’ho tentato con risultati alterni. Ma molti miei fan mi hanno scritto di essersi sposati grazie a un mio film dopo aver portato le fidanzate a vederlo. Sono fiero di aver fatto nascere tanti amori. E chissà quanti bambini».
Comincerà a girare la seconda stagione della serie Vita da Carlo subito dopo le elezioni: cosa si aspetta dal voto?
«Spero con tutto il cuore che, dopo aver messo da parte un pezzo da 90 come Mario Draghi, l’Italia mandi al potere persone preparate, di buon senso, dotate di una visione europeista e diplomatica. Ne abbiamo più che mai bisogno in questo momento così delicato».
E per Roma cosa si augura?
«La rinascita. La Capitale è ahimé in declino, sotto scacco della burocrazia che paralizza iniziative e progetti. È sporca, trascurata, con i muri che continuano a riempirsi di graffiti. Deprimente. Ma è inutile addossare le colpe del degrado all’amministrazione: siamo noi romani a doverci prendere cura della nostra città, parlo soprattutto agli imbrattatori armati di spray. Dobbiamo impegnarci tutti. Roma non rinasce da sola».