il Fatto Quotidiano, 18 settembre 2022
Letta e il 1948
Enrico Letta è stato il primo a evocare le elezioni dell’aprile 1948, prendendo la parola in direzione Pd subito dopo la caduta di Draghi, e a paragonarle con il voto del 25 settembre prossimo. Paragone osceno, perché il ’48 fu l’elezione più isterica, più falsa, più manipolata nella storia postbellica italiana.
Iniziò allora l’uso dei cartelloni elettorali, e il fronte composto da comunisti e socialisti venne ritratto con immagini agghiaccianti: per esempio, un enorme scheletro in uniforme dell’Armata Rossa. Stalin era alle porte: finanziava i comunisti di Togliatti e i socialisti di Nenni, avrebbe calpestato anche da noi ogni libertà. Padre Lombardi tuonava, in nome di Pio XII: “Nell’ora grave che volge, e dinanzi ai prossimi eventi ancora più gravi, il Papa ha lanciato una formula: ‘Con Cristo o contro Cristo’; non c’è che una scelta da fare ed è una scelta religiosa (…). Guai a chi non si pronunzia con Cristo, egli è contro Cristo, e Cristo lo atterrerà”.
Ma fu soprattutto l’amministrazione Usa a manipolare e sovvertire quella campagna elettorale. L’ingerenza fu vistosa: la Nato non aveva ancora visto la luce e le elezioni italiane furono un esercizio ante litteram in diplomazia egemonico-coloniale. Furono promesse forniture di alimentari e medicinali per 300 milioni di dollari se la DC avesse prevalso, mentre in caso di vittoria social-comunista i nostri emigranti non sarebbero più stati accolti negli Stati Uniti e l’Italia sarebbe stata esclusa dal Piano Marshall (l’equivalente del PNRR). L’indecenza di quell’intromissione sta ripetendosi.
Poco prima del ’48 ci fu la strage di Portella della Ginestra, il 1° maggio 1947 (11 morti). Responsabile ufficiale: Salvatore Giuliano, il bandito. Responsabili non ufficiali, rivelati quando la CIA desecretò gli atti relativi all’eccidio: i servizi dell’Office of Strategic Services (OSS), il servizio segreto Usa comandato in Italia dal capitano Angleton, che agì in combutta con la Decima Mas, sbirri fascisti e Giuliano. Le ingerenze Usa son continuate per anni. Per la loro posizione strategicamente scabrosa nel Mediterraneo, Italia e Grecia sono stati i due paesi che più ne hanno patito (o approfittato, a seconda dei partiti o di settori dell’esercito).
Che Letta non abbia rispolverato a caso il ’48 è confermato da quel che accade in questi giorni: l’allarme emergenziale lanciato nei grandi giornali, nei partiti di centro, nel Pd, sulle ingerenze russe nella campagna; le accuse di finanziamenti di Putin a destre ed estreme destre; e per l’ennesima volta, i rapporti dei servizi Usa sui politici di vari paesi che dal 2014 riceverebbero soldi dal Cremlino. Nell’ultimo decennio, quasi tutte le elezioni e i referendum occidentali sarebbero stati oggetto delle brame di Putin: la vittoria di Trump, il referendum sul Brexit del 2016, le presidenziali e legislative francesi del 2017 e 2022. I partiti perdenti non avevano mai nulla da rimproverarsi, visto che a orchestrare la disfatta era stato, da Mosca, il Destabilizzatore per eccellenza.
Tutto questo era moneta corrente nella guerra fredda, e in Italia sin dai giorni della Liberazione, quando l’esercito Usa sbarcato in Sicilia cominciò a congiurare con le mafie. Citato da magistrati come Roberto Scarpinato e Nino Di Matteo, Sciascia descrisse così una Liberazione che aveva prodotto la Costituzione ma anche inoculato veleni duraturi: “La prima cosa che fecero gli americani sbarcati in Sicilia fu nominare uomini di mafia nei comuni più grossi del palermitano, dell’agrigentino e del trapanese”. Seguirono poi le pressioni Usa su De Gasperi perché cacciasse dal governo l’alleato comunista, nel ’47.
Uno spiraglio di autonomia si aprì negli anni della distensione – con Nenni, Moro, Andreotti – presto chiuso dall’assassinio di Moro, nel quale i servizi Usa svolsero ruoli non secondari. La guerra fredda si riaccese in coincidenza con i primi allargamenti della Nato a Est e le intromissioni Usa nei movimenti colorati a Tbilisi in Georgia e a Kiev, per culminare nella scomposta aggressione di Putin contro l’Ucraina. Da allora europeismo e atlantismo hanno smesso di essere distinti, com’erano ai tempi di Brandt, Genscher o Kohl.
Alla vigilia del 25 settembre, il linguaggio stesso è scivolato verso l’allarmismo, a proposito dei prezzi del gas e delle ingerenze russe nelle elezioni. Col passare dei mesi si è passato dal “Siamo accanto all’Ucraina” a un più istintivo, truce: “Siamo in guerra”. Inutile ricordare insieme le intrusioni Usa e quelle russe: se siamo in guerra, quella statunitense non è intrusione ma legittima intercessione alleata.
Per la verità non lo sapevamo che eravamo “in guerra”, non l’ha dichiarata nessuno, eppure tutti lì a dire – nei giornali, in Tv – che l’ingerenza russa è la tappa di una guerra anche nostra. E lo si dice con orgoglio, da quando Kiev ha riconquistato città e territori. Ancora non ci si rende conto che la riconquista è magari un’ottima notizia per gli ucraini (non forse per quei cittadini russofoni che dal 2014 lottano contro l’ucrainizzazione linguistica delle zone orientali), ma potrebbe essere fugace, preludio di catastrofi. Il giorno che Putin dovesse passare dall’Operazione Militare Speciale alla mobilitazione generale e dunque alla guerra vera a propria – su spinta dei falchi che ne criticano la mollezza, dell’Unione europea in gran parte appiattita su Washington, di Biden che vuole una resa dei conti che sganci definitivamente l’Europa dalla Russia (70 miliardi di dollari in armi consegnate a Kiev in 6 mesi: e c’è chi nega la guerra per procura), capiremo che quest’ingranaggio è infernale più per gli europei che per gli Usa. Capiremo anche, forse, che gli italiani non credono nella dicotomia dualistica – il Rosso con l’Europa, il Nero con Putin e Orbán, con Cristo o contro Cristo – che ignora le assicurazioni del sottosegretario Gabrielli: l’Italia non è nella lista dei sospetti.
Il Partito Democratico, così aggressivo quando denuncia il M5S per la volontaria caduta di Draghi, dimentica che i finanziamenti esteri dei partiti furono vietati dal primo governo Conte grazie alla legge spazzacorrotti, nonostante gli emendamenti, respinti, dell’alleato leghista. Di Maio, che reclama commissioni d’inchiesta sui soldi russi, potrebbe occuparsi di diplomazia invece di agitare spauracchi.
“Preferiamo la pace o i condizionatori d’aria accesi?” ci chiese Draghi il 7 aprile. La risposta l’abbiamo. Spegneremo climatizzatori e termosifoni, e di pace e diplomazia non si parla più.