Avvenire, 18 settembre 2022
Nell’orfanotrofio per gli afhani bianchi di Kapisa
Sono i sobbalzi dell’auto ad annunciare l’arrivo a Kapisa. L’asfalto si interrompe bruscamente appena lasciata la direttrice principale che collega Kabul con il capoluogo della più piccola provincia d’Afghanistan, un centinaio di chilometri a nord-est. Un altipiano montuoso incastrato tra il Panshir e la capitale, per vent’anni prigioniero del fuoco incrociato tra occidentali e jihadisti. La strada sterrata, puntellata di buche e dossi, conduce fino al grande cancello di ferro azzurro. Tra settembre e marzo, tutti i giorni, Ralimahullah si piazzava qui, in attesa.
«Aspettavo che riaprisse», dice il bambino. Ciuffo ribelle sulla fronte, occhi sgranati, ha undici anni ma ne dimostra a malapena cinque. La fa-me ne ha rallentato lo sviluppo: un problema diffuso da queste parti. Ralimahullah aveva tre anni quando il padre è stato ucciso da un drone Usa nel villaggio di Alasay, minuscolo agglomerato di pastori sulle montagne, a due ore e mezzo da Kapisa. Uno dei troppi “danni collaterali” della guerra al terrore che, dopo un ventennio di violenza, ha riportato il Paese al punto di partenza. Cioè, sotto il giogo dei taleban. Rimasti senza reddito, la madre e i nove figli sono sopravvissuti grazie alla carità dei parenti. «Ma anche loro erano poveri». Risultato, Ralimahullah è cresciuto cibandosi di the e pane. «A volte nemmeno quello. Non avevo mai fatto tre pasti al giorno prima di arrivare qui». Di nuovo, il piccolo non spiega a che cosa si riferisca. Lo dà per scontato. Tutti a Kapisa sanno che l’orfanotrofio pubblico è l’unica alternativa a una vita di stenti o di schiavitù nelle mani di un parente. Anche per chi, come Ralimahullah, ha ancora un genitore. Anzi, i figli di vedove sono la maggior parte dei cinquanta ragazzi accolti dall’istituto, aperto cinque anni fa e, poi, chiuso per mancanza di fondi nell’agosto 2021, nel tracollo economico seguito alla proclamazione dell’Emirato.
Ci sono voluti oltre sei mesi perché potesse riprendere l’attività grazie a Nove onlus e alla Fondazione Only the brave (Otb) che sostiene molti progetti dell’associazione in Afghanistan, dove è impegnata da oltre un decennio. Ralimahullah ricorda bene il tempo infinito in cui la barriera azzurra è rimasta sprangata. «Sono tornato ad Alasay, da mia madre. È stato bello rivederla. L’ultima volta era stata quasi un anno prima, quando mi aveva portato all’orfanotrofio, su consiglio del capo-villaggio. Avevo, però, sempre fame: non c’erano nemmeno più the e pane. La notte non dormivo pensando al riso che ci davano all’istituto. Così la mamma mi ha mandato a Kapisa da un cugino che mi faceva lavorare al mercato. Non era cattivo, non mi picchiava tanto. Ma a me piaceva andare a scuola: solo così potrò diventare un dottore e curare la gente di Alasay, dove non c’è un medico. Per questo, appena potevo scappavo all’orfanotrofio: volevo essere sicuro di non perdere il posto in caso avesse riaperto...» «Quando mi hanno detto che potevo tornare è stato il giorno più bello della mia vita», aggiunge Nousir, 16 anni, di cui quattro trascorsi all’orfanotrofio.
Anche lui viene da Alasay, dove vivono la madre e cinque fratelli. Un altro “orfano bianco”
dell’interminabile conflitto afghano, cominciato come lotta di resistenza all’invasione sovietica e proseguito nell’anarchia civile e nel terrore del primo regime dei taleban degli anni Novanta. Poi, ancora, nel cruento periodo democratico seguito alla cacciata di questi ultimi ad opera degli occidentali e terminato con il ritorno degli studenti coranici a Kabul, nell’indifferenza del mondo. Un susseguirsi di infanzie bruciate, trasformate nella più efficiente “arma di guerra”. Sono questi ex bambini a cui non è mai stato consentito di essere tali il serbatoio inesauribile delle varie formazioni estremiste, taleban in primis. I padri sono stati ammazzati nell’intreccio di combattimenti, vendette, incursioni, razzie. Senza risorse, alcune madri portano i figli alla madrassa locale, scuola islamica dove, spesso, la religione viene manipolata a seconda delle esigenze del gruppo armato di riferimento. Altre, troppo concentrate a trovare cibo, li lasciano crescere per strada. Alle vedove di Kapisa ora è data un’altra opzione: affidarli all’orfanotrofio pubblico, dove riceveranno istruzione di qualità, cibo, medicine e vestiti. È questo a spingerle a separarsene. «Ogni giorno si presentano tra le tre e le dieci donne supplicandoci di prendere i loro bambini – dice Rahmatullah, operatore di Nove onlus –. Magari potessimo esaudirle tutte». Il ritmo delle richieste si intensifica settimana dopo settimana. La crisi economica ha assunto ormai le proporzioni di una catastrofe umanitaria: oltre la metà della popolazione – 25 milioni di persone – è povera e ha necessità di assistenza per andare avanti. Di questi, quasi venti milioni hanno gravi problemi di denutrizione. Oltre sei milioni rischiano di morire per fame, il numero più alto al mondo. «Quando l’orfanotrofio ha chiuso, sono andato a raccogliere la plastica nella discarica vicino al mio villaggio, Sarbant. I giorni fortunati guadagnavo cento afghani (dieci centesimi di euro). Pochi per sfamare mia madre e i miei quattro fratelli. Il cibo era l’unico pensiero di tutti – sostiene Navid, 13 anni –. Quando finalmente sono potuto tornare, sono stato felice anche se mi manca la mia famiglia. Sogno spesso la mamma. Quando mi sveglio, però, mi dico: “Qui puoi andare a scuola. Così, sarai ingegnere e potrai costruirle una casa vera, non quella di fango dove vivono”».