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 2022  settembre 16 Venerdì calendario

Intervista a Mauro Pagani - su "Nove vite e dieci blues. Un’autobiografia" di Mauro Pagani con Franco Zanetti (Bompiani)

Milano. Promemoria. Ovvero, scrivere un’autobiografia dopo essersi dimenticato tutto. E non si direbbe: Mauro Pagani, motore immobile di una smisurata quantità di grandiosa musica italiana (Crêuza de mä su tutti, altro lo vedremo tra poco) non omette dettagli, grandi storie e piccoli aneddoti, in Nove vite e dieci blues, in libreria dal 21 per Bompiani. E intanto qualcosa ce lo racconta in anteprima.

Un modo per festeggiare 75 anni di vita, compiuti l’anno scorso?
"Fosse stato per quello, avrei potuto scriverla per i 60, i 65, i 70, dato che in tanti me lo chiedevano. Ma ho sempre avuto pudore. Direi più una conseguenza del mio incidente di percorso di due anni fa".

Di cui non si è saputo nulla. Covid?
"Forse sarebbe stato meglio. A casa, una sera, degli oggetti si spostano nello sguardo. Non era un terremoto, quindi capisco al volo e scappo al Pronto soccorso. Ricovero immediato. Un problema al cervello che mi causa un’amnesia quasi generale. Non sto a dirle il dolore né la fatica della riabilitazione, per di più con il Covid a intasare gli ospedali. Volendo guardare il lato positivo della faccenda e ritrovandomi con parecchio tempo libero mi sono messo a scartabellare quaderni e appunti che avevo in soffitta, a parlare alle persone con cui avevo avuto a che fare, a fare quadrare tasselli. A questo punto ho cominciato a pensare che scrivere un libro non sarebbe stata una cattiva idea".

Le autobiografie sono un bilancio di vita. Il suo qual è?
"Discreto, ma potevo far meglio".

Prego? Ha ancora delle amnesie? Lei è Mauro Pagani! Ha fondato la Pfm, ha collaborato con De André, Demetrio Stratos, Guccini, si è inventato la world music italiana, ha reso le Officine Meccaniche la miglior sala di incisione italiana. Le pare un bilancio discreto?
"Ma no, tutto questo me lo ricordo bene. E non voglio fare il falso modesto: so di avere del talento, ma il talento va sfruttato a fondo. Io spesso non l’ho fatto appieno: riascoltandomi ho avuto la tremenda sensazione che avrei potuto essere molto più bravo di così, se solo avessi voluto. Sa come si dice a scuola? Intelligente, ma non si applica".

Spesso, dice. Quindi qualche volta ci è riuscito. Quando?
"Direi principalmente negli anni Ottanta, quando con Faber sono nate prima Crêuza de mä e poi Le nuvole. Ho avuto l’intuizione di aprirmi alle sonorità del Mediterraneo, un mondo di culture, tradizioni e popoli che era inesplorato. In quegli anni ho camminato allo stesso passo dell’anima. Forse la migliore idea della mia vita".

Che lei ripercorre proprio dagli inizi, visto che calcola anche la data del concepimento.
"Perché non è banale: 25 aprile 1945. Una volta chiesi a mia madre se avevano festeggiato così la Liberazione. Sua risposta: ’Mah sarà stato il 26 o il 27... il 25 c’era trambusto’, un minimalismo che mi piace molto. Ma a me piace pensare al 25 perché nel libro intreccio la mia vita alla storia d’Italia, soprattutto al ’68 e agli anni Settanta".

Lei fu un sessantottino ante litteram, sempre in collegio e sempre cacciato.
"Papà Ugo aveva una mentalità militare, una sera si rifiutò di uscire con me perché avevo i capelli lunghi, yéyé. Logico che diventassi ribelle. Una volta fui espulso dal collegio per aver messo nel letto del rettore il gorilla imbalsamato che c’era nell’aula di Scienze. Ma Ugo era anche un musicista, più dotato di me, con il suo orecchio assoluto componeva una Sinfonia in Re bemolle calante coi clacson dei camion, mi mise in mano il violino, anche se un giorno, esasperato da come lo suonavo male, me lo spaccò in testa. Poi uscì, me ne comprò uno nuovo, me lo consegnò dicendomi: ’Da capo’. Nonostante tutto riuscimmo a fare dei concerti assieme e seguì i miei inizi da professionista con amore e ammirazione. La sua azienda si chiamava Officine Meccaniche, ovvio che lo omaggiassi quando rilevai gli studi di registrazione".

Dove alligna ancora un’aria antica, artigianale.
"Diciamo che qui siamo una Little Big Horn, assediata dalla modernità tecnologica. Per evitare il surriscaldamento della strumentazione dobbiamo tenere accesi i condizionatori 24 ore su 24. Ci sono amplificatori anni 50 e 60 le cui valvole, semplicemente, sono sempre più rare, idem i ricambi per le tastiere. Quando smetteranno di funzionare, chissà".

Tappe fondamentali della sua vita musicale. La Pfm.
"Eravamo un gruppo rock internazionale, trattati come star in Giappone e Stati Uniti. E gli Usa furono una scoperta e un tormento: organizzazione perfetta, ma tutto sempre uguale, stessa scaletta, stessa compagnia aerea, stessa auto ad attenderci, stessi alberghi, tutti uguali, stessa temperatura (76 Fahrenheit), con le stesse trasmissioni tv. Una sera accesi la tv e vidi con terrore la sigla di Bonanza, che avevo visto la sera prima e quella prima ancora alla stessa ora. Ebbi una crisi di nervi. Al mio ritorno in Italia, decisi di lasciare la band, non mi riconoscevo più nel linguaggio del prog e come reazione per un bel po’ ascoltai solo Ac/Dc e Police, e cominciai a studiare musica".

Lei?
"Ma sa, non si finisce mai di studiarla. La ascolti, noti cambi di toni, sfumature... Poi certo, tanti non la studiano proprio, ed è un delitto che in Italia non la si insegni nelle scuole per quel che è: cultura. I giovani capirebbero molto del passato prossimo e remoto, approfondendola. Invece spesso nel nostro Paese la si vive come un sottofondo".

Riprendiamo con le sue tappe. Ovviamente De André.
"Un uomo del ’600. "Scrivi una poesia, mettila in un cassetto per 10 anni, poi leva il superfluo". Era contro ogni riarrangiamento perché lo considerava una forma di autocompiacimento. Spesso difficilissimo da gestire, specie quando beveva, ma che ingegno, che talento, che generosità, che cultura. Mi manca".

Demetrio Stratos.
"Che dolore ancora adesso. Una forza della natura. Prima dicevo dei miei rimpianti per non aver sfruttato del tutto il mio talento. A differenza mia Stratos lo stava sfruttando appieno, chissà cosa avrebbe potuto fare ancora".

Francesco Guccini.
"Anni fa al premio Tenco mi aveva detto: ’Te che sei una tvoia, perché hai suonato con tutti e con me no?’ (imitazione perfetta, ndr). Semplice, gli ricordai che non me lo aveva mai chiesto. Quando mi proposero il suo canzoniere da affidare a cantanti contemporanei di mia scelta fu una festa. Ne sono usciti due gran dischi, Note di viaggio 1 e 2".

A proposito del suo essere "tvoia", di lei colpisce la capacità di passare da De André a Sanremo.
"Quando Fazio mi propose la direzione musicale del Festival perché non avrei dovuto accettare? A parte la stima per Fabio, avevo totale libertà e un’orchestra di 50 elementi a cui far suonare i miei arrangiamenti e le mie composizioni. È stata l’ennesima occasione per arricchire il mio bagaglio professionale. Se ho un pregio è che da qualunque esperienza imparo qualcosa".

E in conclusione, dopo questo libro, che  cosa crede di aver imparato dalla vita?
"Che la musica è totalizzante. Uno dei miei tanti errori. Dopo la malattia ho scoperto il piacere dell’ozio, della lettura, di un buon pasto diviso con gli amici, di un sonnellino pomeridiano. Mi godo tutto molto di più. La musica resta il mio lavoro, ma senza impazzirci più dietro come prima".