La Lettura, 18 settembre 2022
Su "Diari. 1941-1958" di Cesare Zavattini (La nave di Teseo)
Se è vero, come diceva, che voleva fare del diario la sua opera, anzi la sua Opera, Cesare Zavattini sarebbe certamente grato a Valentina Fortichiari e Gualtiero De Santi, curatori di questo primo volume che raccoglie una scelta dei taccuini scritti tra il 1941 e il 1958. Primo volume di una serie che ci porterà fino al 1987. Indubbiamente un’opera, una satura lanx, un gigantesco vassoio di frutta mista al modo di quelli latini che riunivano le primizie della terra da donare agli dèi, un «tritume di nomi di fatti di pensieri». Il bello è che questo libro si può attraversare come si vuole, partendo anche dalla fine o da metà e procedendo in avanti e indietro secondo le curiosità, magari aiutandosi con l’indice dei nomi. In ogni caso ne viene fuori un quadro d’insieme coloratissimo e molteplice. Senza trascurare le introduzioni dei curatori, che orientano il lettore dentro quell’«autobiografismo perpetuo» tra intimità e confessione in pubblico che ha caratterizzato la vitalità creativa di Zavattini, detto Za, autore, non a caso, di un primo libro intitolato Parliamo tanto di me, 1931, e già improntato a una frammentarietà organica sia pure con prevalenza di un immaginario comico-surreale. Sul suo «diariare estroverso», Za si interroga di continuo, come in un ron-ron che non lo abbandona e lo aiuta a superare ogni tentazione di pigrizia o di cedimento.
«Si dava il compito — scrive Fortichiari — di annotare almeno dieci righe al giorno, per essere davvero appagato». Un atto di profonda umiltà ma anche un’impresa titanica, paragonabile a quelle di Tolstoj o di Gide, ambedue ostinati estensori di diari per lunghi decenni. Un’iniziativa anche di estrema presunzione, se lo scopo era, attraverso il resoconto delle minuzie ordinarie, mettersi «alla ricerca della cosiddetta verità». Osserva Zavattini nel 1943: «Io farò un’opera che sarà utile agli uomini, se Dio mi aiuta».
Su fogli sparsi riuniti in cartelline, quadernoni e quadernetti, taccuini, agende, Zavattini alterna una scrittura compiuta, nitida ed elegante, con passaggi caotici, veloci, privi di punteggiatura e a volte indecifrabili. Non solo appunti ma anche disegni, l’altra passione di Za. «Scrittura della vita in attesa di essere depurata e narrata»: così De Santi, che segnala la «simultaneità dei diversi materiali» di cui si compongono i molteplici piani della satura, articolati in 3 o 4 filoni non sempre scindibili. Il più consistente comprende notizie sui lavori in corso, incontri e aneddoti del contesto romano in cui — dopo esperienze tra la sua Luzzara, Parma, Alatri, Milano e altro — dal 1940 operava lo sceneggiatore, il giornalista, lo scrittore, il pittore, il creatore di soggetti e trame, il tessitore di relazioni e di amicizie. Il secondo affluente, più intimo, assorbe e trascina in sé gli stati d’animo e le riflessioni più varie, le amarezze e le insoddisfazioni, le cupezze, i ripensamenti di un uomo vulcanico e dispersivo per eccesso: «Vorrei sapere cos’è questo mio continuo “disperdere”, “sciupare” (...) Ma sciupo tutto, è l’abbondanza che ho, la vitalità, la pigrizia» (giugno ’50). I sentimenti sul mondo e sulla politica: «Credo che il fascismo tornerà, è la forma più pigra di essere, di imporsi» (7 ottobre ’46). I pensieri (per lo più notturni) sui misteri dell’esistenza: «Cerco la fede in Dio. È un’entità morale che cambia nome (Cristo, gli altri, la società)».
Un altro filo, esile ma non meno forte, lascia baluginare rapide cronachette, momenti per lo più fulminei della vita degli altri, che Za osserva con sorpresa da poeta: «Domenica: vedo nella casa di fronte un operaio che fa l’amore su una sedia con la moglie, sono quei due che seguo molto, i veri poveri, hanno i figlioletti» (luglio ’47). «Donna svenuta per la vera fame sulla strada» (dicembre ’49); «Visita al canile Municipale. La donna con gli occhiali. La donna che parla col suo gatto creduto rabbioso» (1 luglio ’50). Ne viene fuori una sorta di romanzo sociale narrato in una prima persona collettiva che si moltiplica e si disperde.
Sincerità era per Zavattini una parola chiave: «Bisogna parlare non per conto di altri ma in nome di sé stessi…». E se il lettore ha voglia di capire subito in che cosa consista la sincerità di questo diario, può sfogliare le numerose ricorrenze di Vittorio De Sica: il regista-sodale con il quale Za portò a compimento, in quegli anni, capolavori del neorealismo come Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1951) e Umberto D. (1952). Che cosa troverà il lettore curioso? Troverà, per esempio, una telefonata in cui Vittorio chiede lumi all’amico Cesare su Sciuscià per prepararsi a un’intervista radiofonica che potrebbe riservare domande imbarazzanti sulla cruda e cupa verità del film. E il «suggeritore» Za brontola sottovoce: «De Sica è davvero senza idee generali; ha solo degli intuiti aneddotici, da commedia». Dunque? «Gli ho dettato la frase riassuntiva contro gli eventuali attacchi: che cioè la salvezza del cinema e non solo del cinema, degli italiani e non solo degli italiani, è la sincerità, andare in fondo a ciò che siamo, per superarlo ecc. ecc.». Niente di meglio che un diario per esprimere il massimo di onesta franchezza tra sé e sé. Come quando accusa lo stesso De Sica di non rispettare i patti, di appropriarsi delle sue idee senza essergli riconoscente, di essere «brutto e sempre più ingiusto», un «volgare egoista», che dopo avergli rivelato di aver perso 5 milioni al casinò e in borsa gli dice di apprezzare tanto la sua purezza.
Se De Sica giganteggia nella sua ingombrante cialtroneria («da prendere a calci», «è zero», un «criminale»), il diario è anche il resoconto di una società culturale formicolante di chiacchiericci malevoli, di furberie, di intrallazzi e di bassezze, di tanta miseria e di pochissima nobiltà, di prostrazioni (soprattutto nei confronti del censore Giulio Andreotti). Lo stesso Za, il «buono» che agogna la pace universale e censura la «pochezza» degli intellettuali italiani, non nasconde le sue inimicizie. Da comunista inveisce contro l’Alessandro Blasetti fascista («gli spiego come il patriottismo fascista o no è un fatto gretto ed egoista al quale lui crede di dare la sua generosità»). Non sembra apprezzare Ennio Flaiano «pacificamente non pagatore» (la questione del denaro è tra quelle che spiccano). Sorride quando sente dire a Maria Bellonci: «Ah, io credo di essere un po’ troppo di sinistra». Si compiace dell’insuccesso di Mario Soldati regista di Daniele Cortis («si rilegga, quello sciocco, i miei consigli…»). Si stupisce che Giuseppe Ungaretti, incontrato per caso in corso Umberto, gli invidi un soprabito («dice che è bello, che lui non ce l’ha, e io gli dico che mi toglie il piacere di averlo io»)…
Ci sono tutti gli scrittori, gli artisti, gli intellettuali, i cineasti e li vediamo da vicino come fossimo noi ad incontrarli, insieme con Zavattini: da Moravia a Rossellini che vorrebbe fare Italia mia sollecitato da Ingrid Bergman, da Fellini a Piovene, da Alvaro a Bontempelli, da Bompiani a Einaudi a Rizzoli, da Calvino all’odiatissimo Cecchi, da de Chirico invitato a cena con la moglie a Visconti (nel quale «c’è una pagliuzza d’oro vero»). In una sola giornata, il 9 febbraio 1947, Za riceve telefonate da Giacomo Debenedetti, Sibilla Aleramo, Ungaretti, e accoglie in casa Savinio. «Tritume»? Chiamiamolo tritume.