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 2022  settembre 17 Sabato calendario

Intervista a Serena Vitale


Può sorprendere imbattersi in un Dostoevskij ferocemente umoristico, in grado di restituire il magma incandescente che la Russia vomita dal suo vulcano, che è poi la Pietroburgo degli anni sessanta del XIX secolo. Eppure, superata la sorpresa di uno scrittore che sembra Gogol, con indosso tutto il cappotto, resta la sensazione che Il coccodrillo – il lungo racconto (recensito già suRobinson da Wlodek Goldkorn) curato, per Adelphi, da Serena Vitale – sia una delle satire più devastanti della società nella quale Dostoevskij si aggira con sovrano disprezzo. Fëdor detesta tutto quello che massifica e rende conforme. I tumultuosi cambiamenti sociali ed economici che hanno interessato l’Europa, non risparmiano la Russia e attizzano la fantasia dello scrittore, il quale immagina un enorme coccodrillo esibito nelle fiere da un protervo signore tedesco. L’animale divora un malcapitato funzionario russo, tal Ivan Matveic. La tragedia surreale si rovescia nella grottesca satira politica. Matveic nella pancia del rettile progetta una nuova vita di riscosse sociali; dalle viscere del coccodrillo vuol far partire una rivoluzione che renderà il mondo migliore. È uno strano racconto, non sembra neanche scritto da Dostoevskij: «In realtà non è un unico, ci sono in Dostoevskij altri racconti fortemente satirici, come Il sogno dello zio,o Bobok. Credo che Dostoevskij amasse anche far ridere i lettori», mi diceSerena Vitale.La pancia del coccodrillo somiglia a una tana e ricorda “Memorie dal sottosuolo”.«Il protagonista delle Memorie del sottosuolo è un uomo che non ama la vita, contrasta le leggi e odia l’umanità; ma in realtà odia soprattutto se stesso. Ivan, ilprotagonista deIl Coccodrillo, è la versione divertente.Nella tana, cioè nel ventre del coccodrillo, sta benissimo.È un pazzo che sogna di diventare un nuovo Fourier: anche lui immagina una società utopica».Tu scrivi nella postfazione che Dostoevskij attraverso la figura di Ivan Matveic prende in giro Cernysevskij, l’autore del “Che fare”.«Un libro molto amato da Lenin, ma così mal scritto da indurre Nabokov ne Il Dono a farne la parodia. Comunque Nabokov non amava neanche Dostoevskij. Gli piacevano il sarcasmo e la forza umoristica ma trovava sciatto il suo stile. Troppo tirato via. Uno cesellava le parole, l’altro le tagliava con l’ascia».Una bella differenza.«Nabokov poteva permettersi ciò che a Dostoevskij era vietato. Poteva tranquillamente scrivere dalla sua villa di Montreux, mentre l’altro scriveva per vivere, per pagarsi i viaggi, il cibo, il gioco d’azzardo. C’era l’editore che lo inseguiva, i creditori che gli davano la caccia. Ecco perché scriveva un racconto in due settimane».Se avesse avuto più tempo?«Chi lo sa. Mi sono fatta un’idea».Dilla.«Tutto in Dostoevskij congiura contro le regole. Per lui due più due non fa quattro ma cinque. Provava un’intima ribellione contro le leggi, anche quelle che normano la lingua. Stravolgere lo stile equivaleva a sconvolgere l’ordine comune della vita. Del resto, solo così era in grado di esplorare le parti più inquietanti dell’animo umano».Cercandovi cosa?«Possiamo ipotizzare che cercasse l’intrinseca natura del male. Ma io credo che fosse soprattutto attratto dal fallimento. Nelle Memorie dal sottosuolo il protagonista dice di fare schifo perché non è riuscito neppure adiventare un insetto. È l’uomo che tenta di identificarsi con l’animale, e fallisce pure in questo. Non a caso Kafka adorava Dostoevskij».Però le metamorfosi gli riuscivano.«Regredire o trasformarsi in animale o insetto era per Kafka l’estrema protesta contro l’uomo moderno. Anche Dostoevskij prefigura nel mondo moderno il disagio di chi è costretto a viverci».La sua Russia era moderna fino a un certo punto.«Era ancora una infinita distesa di terra contadina punteggiata da alcune città europee come Odessa o Pietroburgo. Dostoevskij conosceva il vecchio continente».Conosceva i tavoli da gioco e la roulette.«Anche, ma le sue impressioni non erano di amore o di odio, bensì avvertiva la propria diversità. Temeva una Russia minacciata da un progresso che stava valicando gli Urali».Salvaguardava l’anima russa. Ma tu credi in questa definizione?«Ci credo anche se temo che Bachtin mi avrebbe preso a male parole. L’anima russa è l’imprescindibilità dalle proprie origini. Lì uomo e terra sono indissolubilmente legati».A proposito di origini, le tue sono pugliesi.«Sono nata a Ostuni».Risulta che sei nata a Brindisi.«Lo so, ma c’è stato un errore nel certificato, forse commesso da un impiegato che ha sbagliato nel trascrivere la città».La tua infanzia?«Disordinata ma intensa. Ascoltavo tantissima musica, forse per influenza familiare. Mio padre, famiglia di liutai, era suonatore di violino».Non hai pensato di percorrerne le tracce?«Troppo studio metodico. Ma poi le carriere erano tracciate dalla mamma. Lei decideva cosa avremmo fatto: mio fratello medico, mia sorella pianista, io insegnante.Ero dotata per la matematica».Ma poi hai scelto le lingue slave e il russo.«Si cresce e ci si trasforma. Lo studio di quelle lingue rispondeva al bisogno di una certa armonia musicale e a una qualche forma di libertà».È il mandato più alto per un traduttore.«Lo penso anch’io. Avrò tradotto una cinquantina di testi importanti. Il libro che mi ha dato la gioia più intensa èIl dono,con quella lingua dolce e purissima che solo Nabokov e pochi altri possiedono. Ma il più grande resta Gogol».Più di Tolstoj e Dostoevskij?«Aveva in più quella follia che seppe trasferire nella lingua, rendendola un’esperienza straordinaria. Le anime morte,di cui bruciò la seconda parte, è un libro irripetibile che va al di là di ciò che intendiamo con mente umana. E poi c’èIl cappotto, o meglio Il pastrano, come sarebbe giusto tradurre, il racconto che ha fatto scuola.Lo stesso Dostoevskij gli rende omaggio ne Il coccodrillo».Quanto ha contato nei tuoi studi la presenza di Angelo Maria Ripellino?«È stato il mio maestro. Le sue lezioni erano bellissime.Pura messinscena teatrale. Del resto amava tantissimo il teatro e quella sua vena da attore serviva a catturarci e ad aprirci la mente. Eravamo una decina di persone in tutto a studiare il russo e quando uscivamo dall’aula ci sentivamo improvvisamente orfani di quella voce che ci regalava la bellezza di nomi che non avevamo mai conosciuto. Mi ha insegnato che la Russia è fondamentale anche nel dolore».Con Ripellino hai studiato anche il ceco e questo ti ha permesso di tradurre i primi libri di Kundera.«Erano bellissimi. Avemmo vari incontri».So che andasti a trovarlo a Praga con il tuo marito diallora, Giovanni Raboni.«No, andai da sola grazie a un borsa di studio che mi fece avere Ripellino. Lui voleva che imparassi bene il ceco.Quanto a Giovanni, fui io in seguito a iniziarlo al culto di Praga».Come fu l’incontro con Kundera?«Viveva in una casetta molto piccola in una strada dove c’era la sede della polizia segreta. Gli chiesi se aveva avuto fastidi. Disse: no, no. La verità è che loro spiano me e io spio loro. Kundera aveva molto humour ed era terribilmente galante con le donne. Tranquillizzai Vera, la sua seconda moglie, dicendole che non mi sarei fatta sfiorare neppure con un dito!».Kafka ha mai scritto in ceco?«No, però lo conosceva. Allora Praga era linguisticamente tripartita: convivevano ebrei, cechii e tedeschi. Un crogiuolo di etnie e di culture che si integravano perfettamente, e ciascuno poteva scegliere con quale lingua esprimersi. C’era spazio e gloria per tutti. Pensa al capolavoro di Jaroslaw Hasek, Il buon soldato Sc’veìk e a quelli di Kafka. Sembra quasi che raccontino mondi opposti, tanta era la ricchezza e tanti gli stimoli che raccoglievano».Borsa di studio a Praga, ma nella tua vita c’èsoprattutto Mosca.«Ci sono stata a lungo dal 1967 e poi tornata con frequenza fino al 2003».Come fu l’impatto per una giovane borsista?«All’inizio piuttosto complicato. La prima cosa nella quale mi imbattei fu lo scarafaggio. Nel panorama moscovita è comune come la vodka. Gli insetti comparivano con le prime luci dell’alba. Uscivano da ogni condotto. Fu una convivenza dura. Nelle rare telefonate che potevo fare alla mamma c’era una richiesta insistita di Bygon».Immagino che Mosca non fosse solo insetti da contrastare.«Ho avuto amici meravigliosi. Ricordo la moglie di Mandel’stam, che ha influenzato la mia vita. Ammiravo quella donna durissima che aveva saputo tenere a mente tutte le poesie del marito, ucciso nel gulag, per poi donarcele nella trascrizione».Brodskij la descrive come una donna fisicamente piccola e ostinata.«Era l’ostinazione di chi non concedeva tregua alla sua epoca. Aveva visto e vissuto tutti gli orrori staliniani. La prima volta che ci vedemmo mi chiese di recitarle qualche pezzo della Commedia di Dante. Recitai, o meglioprovai a farlo, il canto di Ulisse. Credo di aver saltato qualcosa perché mi disse: non si vergogna? Perché, le chiesi. Mio marito, rispose, conosceva Dante a memoria».Un altro personaggio piuttosto esigente era Sklovskij, che pure ha frequentato.«Lo incontrai la prima volta nel dicembre del 1978. Aveva 86 anni. L’idea era di fare un libro con lui: sulle sue esperienze e i suoi incontri. Era una giornata freddissima, una temperatura che sprofondava sotto i meno venti gradi. Giunsi davanti al suo piccolo appartamento. Mi aprì la moglie. Sull’ingresso sentii questo vecchio gridare: “Ho lavorato con Pudovkin ed Ejzenshtein, non devi certo spiegarmi come ci si mette davanti a una cinepresa!”.Stavano realizzando un documentario televisivo su di lui.Entrai timidamente nella stanza delle riprese. Ancora urlava, agitando minaccioso un bastone verso il regista».E quando ti vide?«Fu sorpreso dalla presenza estranea. Ma servì a calmarlo. Gli spiegai che ero lì per il libro. Mi portò in camera da letto, che era anche tinello, e sprofondò in una vecchia poltrona. Gli passai il contratto. Lo lesse con un certo disgusto. Era convinto che l’editore volesse fregarlo. Ma poi cedette. Fu così che nacque il libro intervista con uno dei più grandi intellettuali russi del ‘900».Che cosa ti colpì di quegli incontri?«Viktor dipinse un grande affresco del suo tempo. Ma la cosa più bella e sincera che mi disse fu questa: nella mia vita ho scritto tanto, cose belle e mediocri, importanti e futili. Così è la vita di un intellettuale. Ma una cosa non homai fatto: non ho mai apposto la mia firma sotto una denuncia o una delazione”. Era il grande vecchio fiero e integro che ho avuto la fortuna di conoscere».Hai detto che in Russia sei andata fino al 2003.«Fu l’ultima volta. Mi dava un fastidio enorme vedere Mosca infiocchettata nel lusso. Ricordo che stavo entrando in un negozio per acquistare un paio di scarpe.Avevo i capelli in disordine e l’abito stazzonato. Il commesso mi bloccò sulla porta, dicendomi che l’ingresso era vietato agli zingari. Mi chiesi, disgustata, che ne era di un popolo che stava subendo il doppio abbraccio mortale di consumismo e autoritarismo».Per arrivare all’oggi, ti aspettavi questa guerra con tutte le sue pesanti implicazioni?«C’è una specie di teoria messianica che Putin ha messo a punto grazie alle follie del patriarca Kirill. La cosa che mi provoca più orrore è vedere le migliaia di giovani russi mandati a morire. Giovani presi dalle repubbliche lontane: osseti, buriati. Popoli che a stento riconoscono una macchinetta del caffè. Io penso che ci sia qualcosa di profondamente patologico in questo culto della Russia, un delirio omicida che sta spingendo il paese alla rovina».