Robinson, 17 settembre 2022
Rileggere Luciano Erba
Con lievità elegante e discreta, Luciano Erba ha saputo proporre una personalissima osservazione della concretezza del reale e dei suoi dettagli. Nei primissimi decenni della sua presenza, dalle plaquette giovanili poi confluite nel 1960 in un’opera decisiva come Il male minore, la sua figura sulla nostra scena letteraria era stata molto viva e attiva, divenendo in seguito, per anni, decisamente appartata. Lo ricordiamo tra l’altro come co-curatore (con Piero Chiara) dell’antologia dei giovani autori di allora, Quarta generazione (1954), ma in quel periodo aveva già esordito poeticamente con Linea K, (1951) ed era stato incluso in un’altra famosa antologia, Linea lombarda (1952) di Luciano Anceschi. Nonostante la sua parziale vicinanza con gli altri autori scelti per quest’ultima selezione di nuove voci (Vittorio Sereni, Roberto Rebora, Renzo Modesti, Giorgio Orelli, Nelo Risi), un dato sempre più evidente della personalità poetica di Luciano Erba è stato proprio nella sua piena e irrinunciabile autonomia.
Nato a Milano il 18 settembre 1922, è morto il 3 agosto 2010 e dunque tra poco sarebbe arrivato a cent’anni. Quello che conta soprattutto, oggi, è l’intatta efficacia espressiva della sua proposta, anzi, diciamo pure la robusta crescita di consenso nelle reazione del lettore attento. Tra l’altro, nella poesia di Erba riaffiorano spesso movimenti narrativi o flash di racconto capaci di farci cogliere anche un sapore d’epoca, magari con la presenza di personaggi indimenticabili, come quello della Grande Jeanne di un suo testo tra i più raffinati e percorsi da humour. Eccola qui, allora: «La Grande Jeanne non faceva distinzioni / tra inglesi e francesi / purché avessero le mani fatte / come diceva lei / abitava il porto, suo fratello / lavorava con me / nel 1943. / Quando mi vide a Losanna / dove passavo in abito estivo / disse che io potevo salvarla / e che il suo mondo era lì, nelle mie mani / e nei miei denti che avevano mangiato / lepre in alta montagna. / In fondo / avrebbe voluto la Grande Jeanne / diventare una signora per bene / aveva già un cappello / blu, largo, e con tre giri di tulle». Notevole e inconfondibile nei modi è la sua capacità di cogliere l’umana figura, sulla scena di passaggio dell’esserci, nelle sue trascoloranti apparenze, nel risalto degli abiti indossati. E lo stesso io lirico narrante si descrive spesso in questi termini, come una semplice parvenza ravvisabile nel sociale decoro esteriore della sua provvisorietà di umana comparsa. Eccolo allora con “una cravatta crema” o nell’“abito estivo” dei versi sopra citati, e in testi successivi questa attenzione al costume del proprio apparire continuerà regolarmente, specifico tratto distintivo del suo racconto, nella piccola magia, nella delicata musica che parte dalla prosa, dalla grazia felicemente comunicativa e antiretorica dei toni.
Ma va qui ribadita l’autonomia della sua opera e l’estraneità alle non poche (e spesso battagliere) tendenze e teorie del tempo, essendosi mosso ben lontano dalle proposte precedenti del cosiddetto ermetismo, ma non di meno dallo spesso dominante neorealismo. E quando nel 1960 pubblica il suo primo libro riassuntivo, appunto Il male minore (titolo tra i maggiori della nostra poesia di quegli anni) si era alla vigilia della vigorosa proposta della sperimentazione a tutto campo a lungo attiva e dominante. Comparirà infatti poco dopo la prima antologia della neo avanguardia, dei Novissimi, e nascerà il Gruppo ‘63. L’insofferenza del nostro per quelle richieste programmatiche e ideologiche di innovazione a tutti i costi contribuirà a renderlo assente dalla scena letteraria, con un periodo di silenzio che si protrarrà fino al 1977, con l’apparizione di una nuova raccolta, Il prato più verde, nella bellissima e aperta collana diretta per Guanda da Giovanni Raboni, i “Quaderni della Fenice”. Eppure il suo lavoro non era stato trascurato o sottovalutato dagli stessi personaggi maggiori della neo avanguardia, tanto che Edoardo Sanguineti, nell’antologia Poesia italiana del Novecento
(1969), escluderà provocatoriamente tutti gli autori non sperimentali della quarta generazione con due sole eccezioni: Pier Paolo Pasolini e appunto Luciano Erba.
La lunga fase di silenzio del nostro era stata peraltro favorita dalla sua attività accademica di francesista, che lo aveva portato all’estero, anche negli Stati Uniti. E il legame con la cultura francese agisce in parte nei suoi versi; basterebbe fare i nomi di Apollinaire e Prévert.
Al rientro torna a imporsi per quella che possiamo chiamare insieme fedeltà e coerenza alla sua idea di poesia, e del resto, in un’opera come Il nastro di Moebius (1980) recupera anche testi del passato, lontano solo cronologicamente. Il nuovo corso vede la conferma di disincanto e ironia, sempre nella tendenza a un canto basso e delicato, che fa della semplicità dei modi uno strumento fondamentale, pur nei passaggi da un’attenzione al quotidiano nei suoi minimi incanti alla sottile indagine della complessità, non senza un implicito interrogarsi metafisico, con un accentuato senso del paradosso, come appare anche in un titolo molto singolare, come Il tranviere metafisico (‘87). Intanto le sue uscite si venivano facendo felicemente più frequenti che in passato, ed ecco allora nuovi libri come L’ippopotamo (1989), seguito da altre raccolte fino a un primo volume riassuntivo delle sue Poesie (2002), edito negli Oscar Mondadori. Amabilissimo poeta da rivisitare, capace tra l’altro, in tempi remoti (anni ’50) di uscite preveggenti, come in questi versi in cui sembra quasi anticipare l’abbassamento culturale di cui oggi soffriamo: «ma nessuno che sappia / che l’ignoranza è il male minore / presso i fedeli dell’imperatore?».