Tuttolibri, 17 settembre 2022
Il romanzo per Lemaitre
Il gran mondo occupa il quarto posto nella saga romanzesca in dieci volumi iniziata con Ci rivediamo lassù. Ho capito subito che stavo lasciando una comfort zone che purtroppo non avrei più ritrovato. Fino a quel momento, per far rivivere il passato, mi ero affidato all’immaginazione (anche se non ne ho molta) o al lavoro degli storici. Ma Il gran mondo si svolge alla fine della Seconda guerra mondiale, qualche anno prima della mia nascita. Entravo in un periodo di cui ho ricordi personali e quello che può sembrare un vantaggio spesso si rivela un handicap. Le nostre reminiscenze, attraverso il loro incessante lavoro di ricreazione, finiscono per prestare poca attenzione alla realtà storica...
Così è stato per Il gran mondo, ambientato agli albori degli anni che noi chiamiamo Trente Glorieuses, stagione felice in cui la maggior parte dei francesi viveva sempre meglio, in cui il capitalismo era talmente generoso con i più da far dimenticare tutti gli altri. Incredibile periodo storico in cui i genitori potevano a buon diritto pensare che i loro figli avrebbero avuto una vita migliore della loro. I miei ricordi di quegli anni sono il frigorifero, l’arrivo del televisore (il telefono non avrebbe tardato), mio padre che compra la sua prima auto, mia madre che si spertica in lodi per la lavatrice... In realtà questi «anni gloriosi» cominciano con il marasma. Il Paese, che fatica a risollevarsi dalla guerra, registra un alto tasso di disoccupazione, le tessere annonarie sono ancora all’ordine del giorno per i francesi così come il numero impressionante di giorni di sciopero che è sempre un barometro delle tensioni sociali. Nel ’48, anno in cui si svolge il romanzo, il benessere deve ancora arrivare.
Ho dovuto quindi calare i miei personaggi in un contesto non del tutto estraneo a quello di Ci rivediamo lassù, tutti i dopoguerra si somigliano.
Per questo romanzo, sono rimasto fedele al mio principio di privilegiare sempre un aspetto poco noto della storia. Così come per la Seconda guerra mondiale non avevo messo in scena né la Resistenza né l’Occupazione ma l’Esodo, episodio poco trattato dagli scrittori, per descrivere l’inizio degli anni Cinquanta ho scelto non la guerra d’Algeria, che è il maggiore conflitto dell’epoca, ma un conflitto piuttosto dimenticato nel nostro paese: la guerra d’Indocina. Iniziavo quindi a lavorare sui tre decenni che segnarono l’apice del capitalismo francese con una guerra coloniale, capitalista per definizione, la scelta mi sembrava pertinente. Ho introdotto quello che oggi chiameremmo un «segnalatore di frodi», che non è affatto immaginario, è realmente esistito.
Cercando di dare vita a un personaggio collettivo che fosse una sorta di testimone del suo tempo, ho scelto il giornale France Soir che fu il quotidiano popolare di riferimento fino alle soglie degli anni Settanta. La parabola del suo successo rispecchia quella della maggior parte dei francesi: superato il periodo difficile degli anni 1946-1950, l’economia rifiorisce… fino a schiantarsi sulla prima crisi petrolifera.
Sono sempre stato attento a non abusare delle somiglianze storiche. Confronta due periodi, due periodi qualsiasi, e troverai inevitabilmente delle analogie, ma i paragoni hanno sempre dei limiti. Detto questo, alcune risonanze sono più sorprendenti e a volte anche più dolorose. Ad esempio, in questi anni Venti del Duemila, in cui il potere in Francia considera i manifestanti come avversari di tipo militare e incita la polizia alla violenza, ero immerso negli anni Cinquanta e anche lì le tensioni sociali indussero il potere a lasciare che la polizia si abbandonasse ai propri istinti. Il lavoro romanzesco non porta solo belle sorprese...
Ma cosa vuole dire «scrivere» un romanzo? Prima di tutto, è una lunga impresa. Già il grande Stevenson ci metteva in guardia: «Non tutti possono aspirare a scrivere un romanzo, sia pure scadente». Ha ragione. Un romanzo mi porta via circa 1.500 ore. 1.500 ore da vivere con gli stessi personaggi, le stesse trame, a rileggere continuamente la stessa storia. È un lavoro snervante (non quanto lavorare in fabbrica ma sapete cosa intendo). Per questo gli ossessivi possono diventare romanzieri (sia pure scadenti).
Detto questo, una volta appurato di essere sufficientemente ossessivi e una volta iniziato, ci accorgiamo subito che senza regole non ce la faremo mai. E dopo aver letto i consigli di Stevenson, Gracía Márquez, Stephen King ed E. M. Forster, per citarne solo alcuni, e aver capito che i consigli degli altri valgono solo per gli altri, ci rendiamo conto che dovremo inventarci da soli le nostre regole (sì, scrivere un romanzo vuol dire prima di tutto affrontare una serie di cattive notizie).
Secondo me, la prima domanda è sempre la stessa: a cosa potrà servire questo romanzo? Perché in fondo, un romanzo che rimanda solo alle azioni dei personaggi o agli sviluppi della trama è un romanzo inutile. È anche una definizione di pessima letteratura. Quando sono certo, per quanto lo si possa essere, che il mio progetto sia di un qualche interesse, mi metto al lavoro.
Le mie regole? La prima: «Diffida della scrittura». La seconda: «Fidati della scrittura» (è paradossale solo in apparenza). La terza: «Rileggi in continuazione». La quarta: «Fai molto bene cose molto semplici»... Ne ho un’altra decina buona ma vorrebbe dire abusare della vostra pazienza.
1. Non affido mai alla scrittura il compito di scrivere il romanzo al posto mio.
Alcuni scrittori ci riescono benissimo. Louis Aragon, per esempio, dice che scrive per sapere come andrà a finire la storia. Ma è Aragon, uno scrittore immenso, un virtuoso, può permettersi tutto. Ora, se c’è una cosa che ho imparato è che non sono Aragon. Se non so come si concluderà il mio romanzo, non andrò da nessuna parte se non a sbattere contro un muro. Per questo faccio più affidamento sul mio lavoro che sul mio talento. Stabilisco così la spina dorsale del romanzo, gli episodi più importanti, l’inizio, il finale, le sfide che i personaggi dovranno affrontare, i principali colpi di scena. So con estrema precisione dove andranno i protagonisti anche se non so ancora come ci arriveranno.
Quando comincio a scrivere un libro, assomiglio a un atleta di salto in lungo: passo un’infinità di tempo a prendere le misure. Perfeziono il primo capitolo finché non mi sembra corrispondere esattamente al mio progetto. Il primo capitolo è una sorta di frattale del romanzo, se lo ingrandisco, riesco a vedere il libro tutto intero. È una questione di geometria: se il primo capitolo si discosta di qualche grado dal progetto iniziale, arrivato al capitolo 15 lo scarto sarà aumentato, non sarà più lo stesso libro e sarà troppo tardi per rimettersi in carreggiata...
2. Se da un lato bisogna diffidare della scrittura, dall’altro ci si deve anche fidare.
Sono convinto che un canovaccio troppo preciso, che stabilisce tutto nei minimi dettagli, sia sempre smentito dai fatti. In corso d’opera, arriverà una buona idea che non era prevista e che modificherà l’intreccio. Tutta l’impalcatura crollerà, che perdita di tempo e di energie preparare un canovaccio diventato inutile! Non so quante volte un personaggio che non avevo immaginato è nato durante la stesura, si è delineato, sviluppato e ha cambiato il tono del romanzo. Parlo del tono, non del romanzo in sé. È il caso di Vladi, per esempio, un personaggio de I colori dell’incendio. Un’infermiera ninfomane e analfabeta che parla solo polacco, onestamente, l’idea non mi sarebbe mai venuta. Magia della scrittura, l’ho inventata quando sono arrivato al punto in cui il mio canovaccio indicava: «Madeleine assume un’infermiera».
La scrittura riserva sempre qualche bella sorpresa, ed è una fortuna.
Detto questo, non lascio mai che un personaggio mi ordini cosa fare. Se spunta all’improvviso ed è utile al progetto, lo accolgo calorosamente. Ma se ne modifica l’andamento, lo licenzio senza preavviso. Voglio restare io il padrone della mia casa romanzesca. In questo, sono un capo inflessibile.
A volte sento qualche collega che si meraviglia perché un personaggio «gli è sfuggito di mano». Come se il personaggio avesse scritto il romanzo al posto suo. Dev’essere fantastico avere qualcuno che fa il lavoro sporco e non sarà mai lì a ricordartelo... non mi è mai successo e in fondo non me ne rammarico, non sono avvezzo al subappalto.
3. Rileggere in continuazione.
Vuoi perché siamo soddisfatti di ciò che abbiamo fatto, o stanchi o pigri... c’è sempre un buon motivo per non rileggerci, per lasciare tutto com’è. Io mi sforzo di rileggere, rileggere, rileggere e non mi è mai successo di non trovare niente da ridire sul mio lavoro.
4. Cerca di fare molto bene cose molto semplici.
È la cosa più difficile. Scrivere un romanzo è come fare politica, significa compiere scelte di continuo. Che si trattasse delle vicende, della psicologia dei personaggi, dell’ambientazione del romanzo o dello sviluppo della trama, ho appurato spesso che la soluzione più semplice è la migliore. Ciò che vale per la struttura vale anche per la prosa. Alla domanda «Come definirebbe il suo stile?», Simenon rispondeva: «Piove». Modestamente, faccio come lui: in un romanzo, quando voglio che Jean apra una porta, scrivo «Jean aprì la porta».
Se avessi più spazio, vi parlerei della costruzione dei personaggi, dell’importanza dell’emozione in un romanzo, della differenza tra situazione e storia, della bomba sotto il tavolo, della meccanica narrativa... ma siete stati già abbastanza pazienti a leggermi fino alla fine.
Così mi limiterò a citarvi il mio motto quotidiano. Chiedersi tutti i giorni, senza eccezione: «Cos’hai fatto oggi per il tuo romanzo?». —
(traduzione di Elena Cappellini)