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 2022  settembre 17 Sabato calendario

Una lunga intervista a Milo Manara


I primi a venirti incontro, sul viale della casa in cui Milo Manara abita con una parte della sua famiglia, sono due pastori tedeschi, buoni come cani e sbrigliati come lupi, che lo accompagnano, a destra e a sinistra, finché non arriva il terzo con un dono (nel mio caso era una pezzuolina di spugna). Lo straniero, l’ospite è accolto. Al fondo del viale, nella Valpolicella più arsa e calda degli ultimi cinquant’anni la signora Luisa fa il resto. Offre cose adeguate a chi ha fatto un lungo viaggio, caffè, acqua, ma anche una tazza di yogurt con i cereali, una cosa da madre, che accetto con gratitudine.
Comincia così il mio incontro con Milo Manara, incrociato di persona, prima di oggi, solo per un’ora in una libreria, e per anni e anni prima, invece: nel tratto, nelle storie, sulle tavole, nei fumetti negati della gioventù, conquistati nell’adolescenza, regalati all’università e poi studiati, insieme alla riedizione che ci fa incontrare oggi, il Kamasutra.
Sono entrambi molto belli, Milo e Luisa, alti e magri, con gli occhi liquidi e una sorta di inquietudine che vi balena, a tratti, sempre, a dispetto dell’aura genitoriale, della morbidezza dei vigneti che ci circondano, e dell’età.
«Mio padre non me lo voleva far sposare perché aveva l’eskimo e i capelli lunghi fino a qua». Era troppo comunista? «Di più: era maoista». Ma? «Ma mi portò in giro sulla moto per tutte queste terre». E poi? «E poi mi ha fatto fare una bella vita, sempre in viaggio con il camper».
Lo studio di Milo Manara è una piccionaia, con un lucernario che gli permette di ricevere la luce dall’alto, sulla porta un poster a colori che lo ricorda quarantenne, abbracciato a Federico Fellini. Dentro, un cavalletto con una magnifica tavola dell’opera nuova a cui sta lavorando, poco spazio tra i colori, le mine, la polvere, e poi mille statuette e oggetti di ogni genere.
Ma questi oggetti, questi simulacri, queste miniature, io le ho già viste tutte: sono nei suoi disegni. Ogni cappello indossato da ognuna delle sue personagge sta qui: militare, marinaio, antico, coppola e borsalino. Ogni nave su cui sono salite le sue storie ha un modellino sulla scaffalatura del corridoio, panfili, battelli a vapore, barchette. E così per ogni campo semantico: il suo universo, in piccolo, lo circonda: e lui ora ci siede in mezzo.
Te l’ho detto, no, che il mio immaginario erotico da ragazza si è modellato – anche – sui tuoi disegni? Una bella responsabilità…
«Sì è una cosa che mi fa riflettere. Uno fa quello che gli pare e che gli viene da fare senza minimamente pensare che per qualcun altro quei disegni possono essereimportanti, segnarne la cultura, l’evoluzione. Mi chiedo cosa succederebbe se i miei disegni finissero nelle mani dei bambini? Secondo me non succede niente. Non ne ho la minima idea, eh? non penso mai al lettore anche perché è l’unica strada.»
Quale?
«Quella di proporsi così come si è».
E il successo come è?
«Il successo è importante perché con un poco di successo hai la possibilità di continuare a lavorare, ma se uno pensa di poterlo costruire si sbaglia di grosso».
Non si può addomesticare con la disciplina?
«Ci sono due tipi di artisti: quelli che hanno disciplina e talento; ma ce ne sono alcuni che questa disciplina non ce l’hanno. Schiller, Caravaggio, Modigliani, Pazienza.
Hanno vissuto intensamente e mentre lavoravano si immergevano totalmente nel lavoro, ma che poi abbandonavano per vivere altrettanto intensamente.
Ehi intendiamoci: non è che quelli disciplinati siano meno talentuosi, ma hanno bisogno di trovare una dimensione claustrale. Invece, per esempio io mi ricordo benissimo che per Andrea Pazienza faceva lo stesso dove disegnare. E però dopo, quando smetteva, era altrettanto, come dire, “concitato” sugli altri piani della vita».
Era Andrea Pazienza…
«Sì, questo te lo puoi permettere solo se sei veramente governato da un talento sovrannaturale».
Parliamo del sovrannaturale allora: tu non ci credi ma ne hai bisogno.
«È una definizione alquanto corretta! Mi affascina il buddismo ma sono agnostico. Questo Buddha l’ho portato dall’India. E guarda quanti Buddha! – sono su una mensola a parte, di ogni grandezza e colore. Per tanti mesi io e Luisa siamo stati con il camper in India, la mia guida eraL’odore dell’India di Pasolini, e seguendo quel libro ho fatto un itinerario. Aspetta sono riuscito a conservarmi ben due volte il passaporto... con i timbri! Te lo faccio vedere…»
Il Kamasutra che oggi Feltrinelli riedita è pieno di misticismo, di pratiche del pensiero orientale. Eppure il tuo non è “fedele” all’originale, mentre in altre opere tratte da testi sei molto più filologico.
«La verità è che quelle tavole sono nate in maniera sperimentale, erano gli anni Novanta, stavo studiando i cd-rom, le interazioni che il lettore digitale poteva avere con il testo. E avevo intenzione di farne un videogame. Mi sembrava il testo giusto, proprio il Kamasutra, sai perché? per togliere quel tanto di meccanicità del ripetersi delle posizioni».La tavola che mi è piaciuta di più è quella in cui Parva, la protagonista, scappa con la cintura che imprigiona Shiva. Ha il culo di fuori, bellissima, libera e si staglia su una città immensa, trafficata, fatta di palazzi altissimi. Va libera con il desiderio stretto alla vita. Mi ha commosso, la giovinezza mi commuove.«Mi dichiaro del tutto incapace di capire le categorie: i giovani, gli anziani… non ho un talento sociologico».Ma la giovinezza si osserva, oppure si ricorda…«Ricordo il senso di immortalità, e il desiderio di sentirmi nessuno: non avere niente da dimostrare e niente da recriminare».Il viaggio da cui hai mutuato questo sentimento?«Parigi nel 1961, avevo sedici anni e si festeggiava l’ottantesimo compleanno di Picasso con una grande mostra al Palais che volevo vedere a tutti i costi. Ci sono arrivato con l’autostop».Da Verona?«Sì. Ritornando da Grenoble ebbi l’esperienza del rischio: presi un passaggio per il Moncenisio che però era chiuso per neve e il tipo mi mollò lì dove ho passato una notte che ricorderò per sempre. Avevo un eskimo che non proteggeva dal freddo, non ce l’avevo per coprirmi: ce l’avevo perché eravamo rivoluzionari. Sai poi io in che anno ho cominciato questa professione?1968».Cosa è rimasto di quella rivoluzione?«Sul piano sociale qualcosa è rimasto, per esempio i rapporti tra insegnanti e allievi, la musica, l’abbigliamento, sul piano culturale e artistico tanto. Su quello politico nulla, anzi credo che oggi sia peggio…vedo tanti ex sessantottini berlusconiani sfegatati».Parliamo del capitalismo.«Quello attuale è il più selvaggio che abbia mai visto: non vediamo che siamo su una strada sbagliata, con i ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri, l’oceano pieno di plastica e non abbiamo cambiato il mondo».Ci vuole subito un progetto.«Uno dei miei progetti sarebbe quello di fare America di Kafka: ne avevamo parlato con Fellini. Fellini era ossessionato da Kafka».Chi non lo è?«Vero, ma lui lì in Corso Italia dove viveva – sai era famoso quindi doveva mettere un nome sul citofono che fosse riconoscibile per noi ma oscuro ai più – bene, aveva scelto “il disperso”. Kafka non era mai stato in America ma la immaginava, e questo personaggio si ritrova sperduto, fa incontri strani e casuali, sai perché?Perché Kafka è un narratore di tipo 2».Menomale che non sei capace di fare le categorie.«Sulle persone no, ma sugli artisti sì, allora».Allora.«I narratori sono di due tipi, il dio, quello che sa tutto, e il testimone, quello che deve starci sennò chissà come va a finire».Bello! Provo: Tolstoj – dio«Esatto».Tu testimone, giusto?«Testimone: non esiste trama, esistono solo una serie di episodi. Ma i film di Fellini te li ricordi? Sono totalmente privi di trama!».In qualche tavola di Kamasutra i piedi escono dal riquadro: è il limite del fumetto o il suo superamento?«Al fumetto mancano movimento e sonoro, Fellinidiceva che è una farfalla bloccata dallo spillo. A me viene istintivo, a volte, che per accentuare la situazione, sento che il piede deve uscire. Caravaggio metteva delle cose che sporgevano dalle tele, per esempio nel San Matteo ci mette lo sgabello: si fa per aiutare gli spettatori a entrare. Allora io prendo uno dei miei personaggini...»No! Io ho il transfer con tutti loro non li chiamare personaggini! Perché ridi?«Perché mi hai detto una cosa bellissima, ovviamente chi disegna ci spera».Io mi ritrovo nella potenza del desiderio, maschile, femminile, non mi importa cosa, chi. C’entra più la metamorfosi che il gender.«L’erotismo è l’elaborazione culturale del sesso come la cucina lo è del cibo. Tante volte la cucina non ha a che vedere con lo sfamarsi, ma poi sai che io precisamente non lo so? Mi rifiuto di indagare troppo perché non voglio smontare il giocattolo. Voglio l’ineffabile».Ho detto “metamorfosi”.«Il disegno può rendere credibile la metamorfosi.Oddio, scusa, pure la letteratura, basta un niente: “Gregor Samsa, svegliatosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo”».Milo ride, rido anche io: siamo sollevati e grati perché esiste il genio.Voglio finire l’intervista con la luna: tu la usi tantissimo, in “Kamasutra” Shiva e Parva ci fanno l’amore.«Il sole è irrappresentabile se non sei Van Gogh. O anche Balla. Un sole di Balla mi è piaciuto molto. Sennò lo devi disegnare al tramonto, ma non puoi renderlo al massimo della sua potenza, no?»La luna invece.«È un tratto che avevamo in comune con Fellini, è molto coreografica e ricca di significati, ricchissima di suggestioni letterarie» Prima che faccia troppo buio, Mirco Toniolo, autore delle foto in queste pagine, gli chiede di tornar giù e disegnare qualcosa sul vetro. «Ma dopo chi lo pulisce? – chiede Luisa, e io le do del tutto ragione. Arrivano a un accordo: si fa dalla parte esterna, così ci pensa la pioggia, come un rito propiziatorio in una estate arida… Luisa, lasciamoli giocare, intanto mi dica: ma poi, dopo Fellini, suo padre è stato contento del suo matrimonio con Milo? Si è chiuso il cerchio? «Si è chiuso quando era molto anziano e aveva difficoltà a compiere movimenti semplici, tipo chessò, lavarsi, allora non chiamava i miei fratelli per farsi tirar fuori dalla vasca, chiamava Milo, e lui, con amore, lo aiutava. Milo è questo amore».