La Lettura, 17 settembre 2022
L’onesta di Zavattini
(Sotto estratti dai diari)
Se è vero, come diceva, che voleva fare del diario la sua opera, anzi la sua Opera, Cesare Zavattini sarebbe certamente grato a Valentina Fortichiari e Gualtiero De Santi, curatori di questo primo volume che raccoglie una scelta dei taccuini scritti tra il 1941 e il 1958. Primo volume di una serie che ci porterà fino al 1987. Indubbiamente un’opera, una satura lanx, un gigantesco vassoio di frutta mista al modo di quelli latini che riunivano le primizie della terra da donare agli dèi, un «tritume di nomi di fatti di pensieri». Il bello è che questo libro si può attraversare come si vuole, partendo anche dalla fine o da metà e procedendo in avanti e indietro secondo le curiosità, magari aiutandosi con l’indice dei nomi. In ogni caso ne viene fuori un quadro d’insieme coloratissimo e molteplice. Senza trascurare le introduzioni dei curatori, che orientano il lettore dentro quell’«autobiografismo perpetuo» tra intimità e confessione in pubblico che ha caratterizzato la vitalità creativa di Zavattini, detto Za, autore, non a caso, di un primo libro intitolato Parliamo tanto di me, 1931, e già improntato a una frammentarietà organica sia pure con prevalenza di un immaginario comico-surreale. Sul suo «diariare estroverso», Za si interroga di continuo, come in un ron-ron che non lo abbandona e lo aiuta a superare ogni tentazione di pigrizia o di cedimento.
«Si dava il compito – scrive Fortichiari – di annotare almeno dieci righe al giorno, per essere davvero appagato». Un atto di profonda umiltà ma anche un’impresa titanica, paragonabile a quelle di Tolstoj o di Gide, ambedue ostinati estensori di diari per lunghi decenni. Un’iniziativa anche di estrema presunzione, se lo scopo era, attraverso il resoconto delle minuzie ordinarie, mettersi «alla ricerca della cosiddetta verità». Osserva Zavattini nel 1943: «Io farò un’opera che sarà utile agli uomini, se Dio mi aiuta».
Su fogli sparsi riuniti in cartelline, quadernoni e quadernetti, taccuini, agende, Zavattini alterna una scrittura compiuta, nitida ed elegante, con passaggi caotici, veloci, privi di punteggiatura e a volte indecifrabili. Non solo appunti ma anche disegni, l’altra passione di Za. «Scrittura della vita in attesa di essere depurata e narrata»: così De Santi, che segnala la «simultaneità dei diversi materiali» di cui si compongono i molteplici piani della satura, articolati in 3 o 4 filoni non sempre scindibili. Il più consistente comprende notizie sui lavori in corso, incontri e aneddoti del contesto romano in cui – dopo esperienze tra la sua Luzzara, Parma, Alatri, Milano e altro – dal 1940 operava lo sceneggiatore, il giornalista, lo scrittore, il pittore, il creatore di soggetti e trame, il tessitore di relazioni e di amicizie. Il secondo affluente, più intimo, assorbe e trascina in sé gli stati d’animo e le riflessioni più varie, le amarezze e le insoddisfazioni, le cupezze, i ripensamenti di un uomo vulcanico e dispersivo per eccesso: «Vorrei sapere cos’è questo mio continuo “disperdere”, “sciupare” (...) Ma sciupo tutto, è l’abbondanza che ho, la vitalità, la pigrizia» (giugno ’50). I sentimenti sul mondo e sulla politica: «Credo che il fascismo tornerà, è la forma più pigra di essere, di imporsi» (7 ottobre ’46). I pensieri (per lo più notturni) sui misteri dell’esistenza: «Cerco la fede in Dio. È un’entità morale che cambia nome (Cristo, gli altri, la società)».
Un altro filo, esile ma non meno forte, lascia baluginare rapide cronachette, momenti per lo più fulminei della vita degli altri, che Za osserva con sorpresa da poeta: «Domenica: vedo nella casa di fronte un operaio che fa l’amore su una sedia con la moglie, sono quei due che seguo molto, i veri poveri, hanno i figlioletti» (luglio ’47). «Donna svenuta per la vera fame sulla strada» (dicembre ’49); «Visita al canile Municipale. La donna con gli occhiali. La donna che parla col suo gatto creduto rabbioso» (1 luglio ’50). Ne viene fuori una sorta di romanzo sociale narrato in una prima persona collettiva che si moltiplica e si disperde.
Sincerità era per Zavattini una parola chiave: «Bisogna parlare non per conto di altri ma in nome di sé stessi…». E se il lettore ha voglia di capire subito in che cosa consista la sincerità di questo diario, può sfogliare le numerose ricorrenze di Vittorio De Sica: il regista-sodale con il quale Za portò a compimento, in quegli anni, capolavori del neorealismo come Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1951) e Umberto D. (1952). Che cosa troverà il lettore curioso? Troverà, per esempio, una telefonata in cui Vittorio chiede lumi all’amico Cesare su Sciuscià per prepararsi a un’intervista radiofonica che potrebbe riservare domande imbarazzanti sulla cruda e cupa verità del film. E il «suggeritore» Za brontola sottovoce: «De Sica è davvero senza idee generali; ha solo degli intuiti aneddotici, da commedia». Dunque? «Gli ho dettato la frase riassuntiva contro gli eventuali attacchi: che cioè la salvezza del cinema e non solo del cinema, degli italiani e non solo degli italiani, è la sincerità, andare in fondo a ciò che siamo, per superarlo ecc. ecc.». Niente di meglio che un diario per esprimere il massimo di onesta franchezza tra sé e sé. Come quando accusa lo stesso De Sica di non rispettare i patti, di appropriarsi delle sue idee senza essergli riconoscente, di essere «brutto e sempre più ingiusto», un «volgare egoista», che dopo avergli rivelato di aver perso 5 milioni al casinò e in borsa gli dice di apprezzare tanto la sua purezza.
Se De Sica giganteggia nella sua ingombrante cialtroneria («da prendere a calci», «è zero», un «criminale»), il diario è anche il resoconto di una società culturale formicolante di chiacchiericci malevoli, di furberie, di intrallazzi e di bassezze, di tanta miseria e di pochissima nobiltà, di prostrazioni (soprattutto nei confronti del censore Giulio Andreotti). Lo stesso Za, il «buono» che agogna la pace universale e censura la «pochezza» degli intellettuali italiani, non nasconde le sue inimicizie. Da comunista inveisce contro l’Alessandro Blasetti fascista («gli spiego come il patriottismo fascista o no è un fatto gretto ed egoista al quale lui crede di dare la sua generosità»). Non sembra apprezzare Ennio Flaiano «pacificamente non pagatore» (la questione del denaro è tra quelle che spiccano). Sorride quando sente dire a Maria Bellonci: «Ah, io credo di essere un po’ troppo di sinistra». Si compiace dell’insuccesso di Mario Soldati regista di Daniele Cortis («si rilegga, quello sciocco, i miei consigli…»). Si stupisce che Giuseppe Ungaretti, incontrato per caso in corso Umberto, gli invidi un soprabito («dice che è bello, che lui non ce l’ha, e io gli dico che mi toglie il piacere di averlo io»)…
Ci sono tutti gli scrittori, gli artisti, gli intellettuali, i cineasti e li vediamo da vicino come fossimo noi ad incontrarli, insieme con Zavattini: da Moravia a Rossellini che vorrebbe fare Italia mia sollecitato da Ingrid Bergman, da Fellini a Piovene, da Alvaro a Bontempelli, da Bompiani a Einaudi a Rizzoli, da Calvino all’odiatissimo Cecchi, da de Chirico invitato a cena con la moglie a Visconti (nel quale «c’è una pagliuzza d’oro vero»). In una sola giornata, il 9 febbraio 1947, Za riceve telefonate da Giacomo Debenedetti, Sibilla Aleramo, Ungaretti, e accoglie in casa Savinio. «Tritume»? Chiamiamolo tritume.
14 gennaio 1941
Oggi ho deciso di cominciare questo diario. È una prova di più che io sono come gli altri. Non c’è un momento della mia giornata che mi dimostri il contrario: io sono come gli altri. Può darsi che il quotidiano costante rapporto con me stesso mi allontani da questa idea. L’angoscia che mi dà questa idea deve essere anche per questo: che mi accorgo che gli altri hanno le mie stesse idee, si comportano come me. Anzi, certe mie azioni le vedo chiare solo perché gli altri le ripetono e non sono contento di me, cioè le mie sono cattive azioni.
26 novembre 1942
A letto correggo le bozze di Totò il buono: che almeno per metà è scritto genericamente. Dovrei avere la forza di non pubblicarlo. È un buon, ottimo soggetto di cinema, per questo era nato.
19 gennaio 1943
A cena da De Sica. Gli spiego che cosa sono le «idee nuove» che stanno dominando il mondo. Lo spavento. Ritorno a casa a piedi: mi accorgo che se sono un po’ eccitato (tono alto) penso meglio. La pressione bassa mi toglie un po’ l’estro. Forse dovrei usare alcol con prudenza, ma usarlo.
9 agosto 1943
Ho capito che la guerra, come ogni altra cosa, capita perché deve capitare a causa del comportamento degli uomini. La maggioranza stragrande si comporta male (una bugia, una viltà, le mille ipocrisie quotidiane ecc., portano alla guerra – cioè la guerra è stabile in noi). Quindi migliorare educare l’uomo. Quella delle rivoluzioni la giudico la più facile, e la peggiore. Tutte le rivoluzioni sanguinose non sono necessarie ma sono inevitabili per la loro facilità, per la loro irriflessività (tutto istinto e tornaconto contingentissimo). Dunque per me la guerra non è un mistero. Poi la si mitizza, ma nella sua essenza è la somma dei nostri quotidiani errori. Dico la guerra come qualunque cosa che non rispetta la vita e la dignità umana. (...)
1° gennaio 1944
Ieri sera sono andato a letto alle 10, con l’Olga. C’era un vento mai sentito così pauroso a Roma. A mezzanotte mentre leggevo il giornale di Renard molti e forti spari. Renard mi assomiglia molto, ma io vorrei essere molto diverso da lui e dai francesi, riducono tutto a letteratura. Ripeto dentro di me che la rivoluzione consiste nello scrivere con uno spirito antiletterario. Poter odiare uno scrittore. Le azioni non hanno bisogno dell’eco che è la scrittura delle azioni (ivi compreso tutto ciò che è, pensiero ecc.).
Mi si configura meglio il rapporto diavolo-uomo nella mia commedia: il diavolo è «irritato» contro l’uomo che vive (da quando?) nelle stesse posizioni, eterne, passioni, mistero, fede ecc. Il diavolo gli dimostra il bisogno di togliersi da questa «noia». L’uomo lo segue ma alla fine compie l’atto che il diavolo aveva interrotto. È proprio vero che la natura umana è così, ma è bella «meravigliosa» che sia così. Ed è «sufficiente» perché ciascuno sappia cos’è il bene e il male. Sussistendo la morte, non può essere diversa, è.
2 agosto 1944
Gli italiani non sono solidali fra loro perché non hanno il senso della solidarietà, con nessuno. Picchio su questo nel mio Viaggio per l’Italia.
Oggi ho provato una grande dolcezza, tenerezza, dentro di me, per breve tempo, col desiderio di essere solidale con chicchessia. Potessi smobilitare i miei risentimenti. Come vorrei parlare agli italiani, persino uccidermi perché le mie parole avessero un peso, direi che non siamo peggiori degli altri perché è in noi la possibilità di essere migliori, senza orgoglio. Vedrò domani se dura questa propensione verso il mio prossimo, se dura nel cuore come è chiara nella mente.
Gli umoristi, i cosiddetti umoristi, dei settimanali hanno una grave, una delle maggiori responsabilità del nostro disastro. Gli italiani risolvevano tutto con le vignette del «Marc’Aurelio»; e liquidavano l’arte migliore con il conservatorismo ipocrita del «Bertoldo», e con la stupidità selvaggia del «420». Anche il «Settebello», sotto la direzione di Campanile e mia, non brillò, eravamo come puttane, soprattutto ignari di che cosa è la dignità e la libertà (miti, d’accordo, ma che devono essere con noi anche se non sono mai fuori di noi).
Molte sere dico: domani entro in una chiesa. E il giorno dopo me ne scordo regolarmente.
28 febbraio 1945
C.E. Gadda a colazione da me. Passiamo due belle ore, e intanto noto la mia incapacità a giudicare gli uomini, non afferro un gesto, una parola che me lo riveli. In fondo, io ho di lui un’idea ricevuta, come ho di tanti. Spero di trovargli il modo di tornare a Firenze.
11 maggio 1945
Coletti mi dice: pensa al mio soggetto intanto che ti lavi visto che non hai tempo. E De Sica: pensa al mio soggetto intanto che scendi dal tram. E Bianchi: pensa al mio intanto che vai al gabinetto.
Continuo a rifiutare lavoro.
5 gennaio 1946
È morto Gian Dàuli. Ho provato dolore perché lui mi disse un giorno che gli ero antipatico, con calma anche se con cattiveria. Io non seppi cosa rispondergli (alle Tre Marie) come potrò dimostrargli che sono simpatico? Ecco un’altra cosa impossibile, frutto degli anni. Egli è là con la convinzione che io sono antipatico, isradicabile.
19 marzo 1948
Vedo film Capra Vita meravigliosa: ecco un’altra storia che avrei potuto fare anni fa, clima artisticamente vecchio, falso ecc.; ma sicuro, almeno avrei realizzato certe cose pratiche; a me m’ha rovinato la guerra, se no a quest’ora ero a Hollywood! Vecchio buffone, pensa a ciò che conta.
26 novembre 1949
Visto Lulù di Pabst. Bello. Forte. Essenziale. Io mi accorgo, più lavoro nel cinema, che faccio fatica a far parlare gli attori, risolverei tutto col muto. Lo sto vedendo nella revisione che faccio di Totò il buono: risolvo tutto col minimo di parole, forse come nessuno.
Quante lettere d’addio (suicidio) ho scritto nella testa in vita mia. (...)
Passo un’ora e più a fare i conti. Avevo detto di non farli.
De Sica dice con cattiveria che Blasetti è un cretino e farà male Prima comunione. Vedo inoltre che ci sta male per la mia regia. Dice che andremo in America. Gli ho detto (anzi ripetuto) che ci andrò e rimanderò il mio film. (...)