La Lettura, 17 settembre 2022
Torna The Fight di Mailer
Lo Zaire del 1974, dominato dal dittatore Mobutu Sese Seko (il settimo uomo più ricco del mondo alla guida di un popolo di derelitti), non è il Congo Belga di fine Ottocento nel quale Joseph Conrad ha ambientato Cuore di tenebra, il suo romanzo più oscuro. Le villette appena intonacate in mezzo alle quali sorgono i lugubri palazzi dei congressi e gli stadi, il labirinto semidiroccato delle strade sterrate, i night-club, le botteghe e le stamberghe non lontano dalle strade asfaltate percorse dai camion all’infinito, non sono la giungla che sovrasta il grande fiume, all’interno della quale è possibile scorgere, all’improvviso, un mucchio di ossa nere appoggiate a un albero, palpebre che si sollevano lentamente, «occhi incavati, enormi e vacui, con una sorta di bianco, cieco balenio nel fondo delle orbite che lentamente si spegne».
E Mobutu non è Kurtz, il trafficante occidentale d’avorio che detesta e tiranneggia i neri e, alla fine del racconto, grida: «Che orrore! Che orrore!». Ma, come quel libro, The Fight, lo strepitoso romanzo di Norman Mailer riproposto da La Nave di Teseo, non è altro che un viaggio nell’inconscio: quello dell’immenso Paese africano e dei suoi abitanti; quello dei neri americani, quello di George Foreman e di Muhammad Ali che a Kinshasa devono affrontarsi nell’incontro di pugilato del secolo, valido per il titolo mondiale dei pesi massimi; quello dello scrittore venuto da New York a fare il reportage giornalistico – anch’esso – del secolo, che per prepararsi ha letto migliaia di pagine, la Bantu Philosophy di Placide Tempels (1945), e ha scoperto, guardando nel fondo di sé stesso, che i neri li odia e li ama, e che la filosofia delle tribù africane è molto vicina alla propria, che i neri – donne e uomini – sono più della somma delle loro parti, conservano l’eredità dei morti e, soprattutto, sono energia vitale.
Il romanzo è strepitoso per svariati motivi. In primo luogo per la scrittura: scabra, esatta, tagliata con una lama. In secondo luogo, per il ritratto dei due protagonisti: uno, George Foreman, il detentore del titolo, ex ragazzo di strada, una montagna di muscoli, capace con un pugno di spezzare la spina dorsale dell’avversario, chiuso in un silenzio ancestrale, simile, prima di ogni combattimento ma anche di un normale allenamento, a un gigante wagneriano in procinto di svegliarsi dopo anni di letargo; l’altro, Ali, una volta Cassius Clay, ora convertito all’islam e alla lotta per la liberazione dei musulmani neri, elegante e bello, agile come una farfalla e pronto a pungere come un’ape, veloce, aggressivo, timoroso di nulla, sferzante con l’avversario, poeta senza sapere quasi né leggere né scrivere, isterico e provocatorio nelle conferenze stampa.
Quindi, per la descrizione dei due clan al seguito, comprensivi di allenatori, sparring partner, manager, parenti, cuoche portate dagli Stati Uniti, tifosi speciali, vecchie glorie, scommettitori: uno spettacolo, nei saloni dell’hotel Intercontinental.
Da ultimo, per la bravura di Norman Mailer, giornalista e romanziere, nel creare l’attesa: in parole molto semplici, suscitare nel lettore un desiderio dapprima distante, poi sempre più coinvolto, spasmodico di conoscere chi sarà il vincitore, vale a dire «come andrà a finire», buona regola di ogni romanzo, compresi quelli che sembrano non finire mai.
Alternando il racconto degli allenamenti a quello delle lunghe pause della noia che ti prende quando sei lontano dalle tue abitudini e dalla tua casa e ti sembra di perdere tempo, Mailer fa crescere la tensione, la spegne, la riproduce negli scontri verbali degli accompagnatori davanti alle birre e ai grossi bicchieri di whisky con ghiaccio, introduce la tracotanza e la paura, racconta (meravigliosamente) il momento della pesatura dei due pugili( vicini da toccarsi, senza guantoni, e nudi), finché il desiderio del lettore di arrivare sul ring diventa mordente.
L’incontro, per motivi televisivi, si svolge alle 4 del mattino del 30 ottobre. I due convogli partono nella notte buia, come due convogli funebri. Tutti tacciono. Si sente il ruggito di un leone: ma viene da un vicino zoo. Lo stadio è per 60 mila persone. Stanno lì da ore, intrattenuti da canti e danze tribali. I pugili entrano negli spogliatoi per prepararsi(qui, con le battute, i silenzi, i litigi sui calzoncini e la vestaglia da indossare, il tocco di Mailer è fantastico). E, finalmente, il ring.
È al centro del prato, protetto da un telone in caso di pioggia: una di quelle piogge torrenziali che all’improvviso si rovesciano sulla terra africana. I contendenti salgono sul ring. Ali saltella, Foreman si muove poco. Guarda l’avversario: «Uno sguardo pesante come la morte, opprimente come la chiusura di un sepolcro». Ali gli risponde con queste parole: «Hai sentito parlare di me da quando eri un ragazzo. Mi segui da quando eri piccolo. Ora devi affrontare il tuo maestro!». Foreman sbatte le palpebre sorpreso. Quindi tocca il guantone di Ali, come per dire: «Hai vinto questo round, ora cominciamo sul serio». E comincia la lotta.
Descriverla è impossibile se non con le parole di Norman Mailer. Ali e Foreman non sono Achille e Ettore, altri campioni dell’epos. Niente di tutto questo. Sono due pugili neri che combattono per vincere in uno spazio delimitato dalle corde e in quello che riescono a stabilire, con l’astuzia e l’esperienza di molti altri combattimenti, fra di loro, facendo sì che lo spazio diventi tempo: si restringa o si dilati, si trasformi in secondi interminabili, minuti eterni. In platea si aspettavano che Muhammad Ali danzasse intorno a Foreman. Invece lui ha deciso diversamente. Va alle corde e ci rimane, proteggendosi e riattaccando finché Foreman non ce la fa più a colpire, è sfinito. Lui allora, alla ottava ripresa, lo butta per terra.
È stato più bravo. Più intelligente.
Questa tattica l’aveva usata già quattro anni prima, nel dicembre del 1970, al Madison Square Garden di New York, contro l’argentino Oscar «Ringo» Bonavena: una specie di macellaio da cento chili. Rimase alle corde, Cassius Clay, come si chiamava quella notte, per 15 riprese. Poi, alla quindicesima, lo buttò giù come un birillo. I tifosi argentini, convinti della vittoria, piangevano. Fuori, ricordo, nevicava. Una nevicata forte, bellissima. E non c’erano taxi.