Corriere della Sera, 17 settembre 2022
Intervista a Emanuele Crialese
Gli ho chiesto un posto significativo dove incontrarci e lui mi ha invitato al lago. Un lago minore, a mezz’ora da Roma. Così, prima di sederci qui a parlare, abbiamo nuotato un po’. Emanuele – il motivo per cui, in un eccesso di confidenza, ricorro al suo nome di battesimo sarà chiaro in seguito – mi ha spiegato come entrare in acqua senza sprofondare nella fanghiglia e mi ha assicurato che le alghe in superficie sarebbero scomparse dopo qualche metro. Era vero. Ci siamo allontanati abbastanza dalla riva, senza che il suo cane ci perdesse mai d’occhio.
Si è preso qualche giorno di riposo qui, da solo, fra la presentazione di L’immensità a Venezia e l’uscita nelle sale. La sua partecipazione al festival si è svolta in un terreno difficile, inesplorato, fra l’artistico e il personale, quando Emanuele ha avvicinato la storia della protagonista del film, Adriana, alla propria biografia e svelato la sua prima giovinezza come bambina. Forse, considerato il film, era inevitabile che accadesse, ma Emanuele Crialese ha 57 anni, una carriera consolidata come regista, avrebbe potuto continuare come aveva sempre fatto e lasciare quella zona di sé nell’indeterminatezza. Invece.
«Invece l’ho deciso. Si è trattato di una scelta artistica e politica. Perché come essere umano, e come cittadino, mi sento oppresso da questa atmosfera pervasiva di paura. Io non ho paura, anche se so di appartenere a una categoria di persone fra le più attaccate. So anche, però, che questo tipo di informazione non dovrebbe interessare a nessuno, perché non è inerente all’opera. Ho girato film che hanno come denominatore comune la marginalità, è quello il mio tema. Mi rifiuto di guardare al mondo sotto un profilo classificatorio».
E tuttavia siamo in un’epoca classificatoria. Perciò, quando dici che «l’informazione», ovvero il tuo coming out, non è rilevante perché non inerente all’opera, capisco quello che intendi, ma mi sembra un’affermazione fuori dal presente.
«Allora io sono fuori dal presente. Ricordi quello che disse James Baldwin su La stanza di Giovanni? Nell’84 si parlava del suo coming out e (in un’intervista a Richard Goldstein) lui disse qualcosa di intellettualmente puro: Domani, nel futuro, vorrei che le persone gay non dovessero più autodefinirsi come tali, perché non ce ne sarà più bisogno. L’essere umano è l’essere umano».
Insisto che derubricare «l’informazione» come irrilevante mi sembra eccessivo. A maggior ragione dopo vent’anni di carriera in cui è stata mantenuta riservata, come un segreto.
«Io non l’ho resa pubblica nel pubblico, ma l’ho resa pubblica nel privato. Il coming out non l’ho fatto a Venezia una settimana fa, l’ho fatto a ventitré anni. Oggi sento una responsabilità nei confronti di tutte le famiglie e di tutte le persone che stanno intraprendendo questo percorso. Al tempo stesso continuo a pensare che l’artista debba celarsi dietro l’opera, non esserne rivelato. Che il suo bozzolo nutritivo debba restare il più possibile intatto».
Proviamo un esercizio mentale: fra due mesi vieni invitato a una rassegna, ovviamente in quanto regista ma anche in quanto persona trans. Accetti?
«Bisognerà vedere il contesto. Non ho mai fatto parte di nessun gruppo. Il mio atteggiamento sociale, relazionale, perfino esistenziale appartiene a un altro tempo. Ho subito delle emarginazioni violente e quell’angoscia di rifiuto mi è rimasta. Ma sento la responsabilità delle mie dichiarazioni. Baldwin, in quell’intervista, dice: Perché dovete continuare con questa storia? Ho già scritto quel che ho scritto. Volete fare di me un attivista? Va bene, se serve ci sono, ma non sarebbe la mia prima scelta. Perché nel mio mondo ideale non c’è bisogno di sapere qual è il mio orientamento sessuale, chi mi sento, in chi mi riconosco».
Il mondo di oggi è migliore per la marginalità rispetto a quello in cui sei cresciuto, almeno riguardo al genere?
«C’è stato un cambiamento culturale ma non legislativo. Per ottenere un cambio di vocale su un nome bisogna ancora presentarsi davanti a un giudice. Io, all’epoca, ho dovuto mettere in mostra i miei organi riproduttivi, mostrare qualcosa di invisibile perché fosse visibile la mia determinazione agli occhi dello Stato. Non avrei avuto i nuovi documenti se non avessi subito prima un’operazione demolitiva».
Mentre lo racconta, la mia mente visualizza fulmineamente una scena di Nuovomondo, quando la famiglia di migranti sbarca a Ellis Island e il bambino viene sottoposto a un test cognitivo. Una scena verso la quale ho un debito artistico personale. Glielo dico.
«Per vivere, il bambino di Nuovomondo deve dimostrare di essere idoneo. Allo stesso modo, la mia ambizione di cambiare nome doveva essere accompagnata da un pegno, da una rinuncia».
A che età? «Vent’anni». Dove? «A Roma». Da solo? «In quel momento mi ero autoescluso dalla famiglia, perché la situazione era ingestibile. Mia madre non sapeva più dove sbattere la testa. Temevo che mi avrebbero ospedalizzato, e che l’avrei accettato, perché per amore avevo già fatto cose simili. Dai quattordici anni ero stato in cura da psicoterapeuti di ogni tipo, cercavano di correggermi, di pacificarmi, e io invocavo lo stesso nelle mie preghiere».
In questa traversata di solitudine chi ti ha aperto il primo spiraglio su una possibilità diversa?
«Una trasmissione di Raffaella Carrà. Intervistava la prima persona in transizione che io abbia mai visto. Era di spalle, e più avanti l’avrei conosciuta e frequentata. È stata una catarsi. Quindi non ero pazzo. E dovevo trovare la forza di intraprendere un cammino, anche se tutti i miei affetti lo vedevano come una via per l’autodistruzione».
In L’immensità la mente di Adriana entra più di una volta nella tivù in bianco e nero. Sua madre (Penelope Cruz) diventa Raffaella Carrà, lei Adriano Celentano mentre cantano Prisencolinensinainciusol in una performance iconica. Durante la prima per il pubblico in Sala Grande, a Venezia, sono scoppiati degli applausi spontanei in corrispondenza di quella e di altre scene affini.
«Prisencolinensinainciusol», mi dice ora Emanuele: «una parola nuova, da inventare, per descrivere un essere al mondo diverso».
Nonostante la propria solitudine, Adriana ha una convinzione incrollabile riguardo a chi è.
Ti viene detto: O sei maschio o sei femmina, scegli!
Ti viene detto: Spiegati, perché se non sei conforme,
devi spiegarti! Ma il problema identitario non è nostro,
è vostro. Siete confusi, non sapete dove metterci
«È una caratteristica comune a tutti noi. La nostra determinazione rasenta la vita e la morte. A sedici anni ho tentato il suicidio. E non è vero che ne parlo pubblicamente solo adesso, lo feci già alla partenza per gli Stati Uniti. Fu il mio primo atto come Emanuele e l’ultimo prima di lasciare l’Italia. Ogni individuo ha una storia a sé. Ognuno arriva dove può e dove vuole. La fatica comune è nell’accettare di essere unici e quindi, forse, non appartenenti. Non vere donne, non veri uomini. Altro. Questo crea smarrimento, dà l’idea di un cupio dissolvi, ma è la realtà, anche biologicamente. E tuttavia, come si può avere un rapporto sano con la realtà se tutto quello che ti viene rimandato da fuori è non-conformità? Ti viene detto: O sei maschio o sei femmina, scegli! Ti viene detto: Spiegati, perché se non sei conforme, devi spiegarti! Anche a questo aveva già risposto Baldwin: il problema identitario non è nostro, è vostro. Siete confusi, non sapete dove metterci. E se io dicessi semplicemente: Sono ciò che sono?».
Che lo si ritenga rilevante o meno, Venezia è uno spartiacque nella tua carriera di regista. Aggiunge qualcosa?
«Forse toglie. Ho il timore che da oggi in Italia mi arriveranno solo proposte sul tema del genere. Magari non sarò più libero di fare un film, ad esempio, sulla guerra».
L’hai comunque fatto.
«Ho affrontato questa situazione come affronto i film: mi preparo molto, studio studio studio, poi butto tutto all’aria e mi lascio andare. Devo perdere il controllo, perché se mi illudo di controllare la mia opera – e la mia vita – fallisco. Per avere una speranza di rinascere, devi essere disposto a morire a te stesso».
Un’immagine di te che muori a te stesso, prima di arrivare a questo film.
«Una piscina vuota, in inverno, provavo a scrivere e non veniva fuori nulla. Mi sentivo stordito e basta. Era iniziato, per la seconda volta nella mia vita, un percorso di autodistruzione».
Così sono passati undici anni tra Terraferma e L’immensità, un tempo insolitamente lungo per i canoni contemporanei. A qualcuno dev’essere sembrato proprio un cupio dissolvi.
«C’è stata una coincidenza diabolica di eventi. La fine di un amore importante. Il ritorno nella mia città, Roma, che avevo abbandonato presto. La morte dei miei nonni e abitare nella loro casa mentre venivano portati via i mobili. Poi una fase di nomadismo, su un camper, un altro tentativo di autoeliminazione. L’immensità comincia con Adriana che aspetta un segnale dal cosmo. Anche Nuovomondo comincia con le parole “dammi un segno”. Io non ricevevo più segni».
Prima, mentre nuotavamo, Emanuele mi ha detto che questa è stata l’edizione di Venezia più felice a cui abbia partecipato. Perciò gli chiedo ora se la rivelazione che ha fatto abbia disinnescato una volta per tutte la spinta autodistruttiva. Si prende qualche secondo prima di rispondere.
«Penso di sì. Perché io... perché per la prima volta ho sentito una comunione tra me e i membri della mia famiglia, tra me e gli altri, che...». Un’altra pausa. Nella registrazione si sentono il vento e i versi degli uccelli. Poi: «È stato improvviso, un salto quantico. Mi sono ritrovato in un altrove».
In effetti in Sala Grande, il giorno della prima con il pubblico, l’emozione aveva una consistenza diversa da quella che si può raggiungere con la visione di un film. Ed è forse il motivo principale che mi ha portato qui, a parlare con lui, e adesso a chiedergli se in fin dei conti l’angoscia di rifiuto non fosse che un mostro di carta.
«Di sicuro me la trascinavo da molto tempo. Da quando ha preso forma la mia identità, quando mi percepivo in un modo e il mondo attorno mi percepiva diversamente. Quel dolore è insanabile, lo porterò con me fino alla fine».
E costituisce il motore principale dell’artista?
«Se dopo i vent’anni non avessi fatto un passo successivo, verso la rappresentazione cinematografica di quel dolore, probabilmente sarei morto».
Talvolta Adriana sfida la morte. Fa calare i bambini più piccoli in un pozzo, coinvolge i fratelli in prove di coraggio. Ma il suo tratto principale è lo sguardo implacabile sulla madre. Uno sguardo amorevole, preoccupato, adorante, talvolta accusatorio, che è il vero cuore del film.
«Io ero inorridito nell’osservare come la donna che mi aveva dato la vita venisse mortificata di continuo, anche socialmente, vittima di sguardi e di palpate. Ed ero inorridito dal mio nome: Crialese. Perché dovevo avere quel nome, il nome di un uomo in cui non mi identificavo, quando l’unica cosa certa era che mia madre mi aveva dato la vita? Il bambino che era in me voleva essere una proposta alternativa per lei. Una figura maschile diversa, più comprensiva».
Cosa succede ad Adriana dopo la fine del film e prima del momento in cui diventerà sé stessa?
«Nella storia che volevo raccontare Adriana era più piccola, aveva dieci anni, un’età in cui c’è ancora il pensiero magico, la possibilità di essere tramutati, rapiti dagli alieni. Poi mi sono trovato davanti Luana Giuliani (l’attrice che la interpreta), il suo corpo da adolescente che diceva: eccomi, sono qui, esci da quello che hai pianificato, perdi il controllo e prendi me. L’ho fatto. Ma il film non vuole oltrepassare la soglia dell’infanzia. Perché nell’adolescenza cambia tutto, diventa impossibile non essere espliciti, il pensiero magico finisce. Allora sarebbe stato un film con uno stile diverso, dove il corpo diventa un limite, qualcosa che se ne va per i fatti propri e non si può più controllare, anche se si fa di tutto per. L’immensità, questo film, finisce dove finisce».