Corriere della Sera, 17 settembre 2022
Carceri, la pena di morte autoinflitta
Il destino di chi marcisce in carcere, si sa, interessa solo ai soliti pochi. Quindi solo ai soliti pochi interesserà sapere che Roberto Vitale, un detenuto di ventinove anni condannato per rapina, è morto ieri in un ospedale di Palermo senza avere mai ripreso conoscenza, dopo che nei giorni scorsi aveva tentato di togliersi la vita appendendosi con un lenzuolo alle sbarre della sua cella. Roberto Vitale aveva un padre ex poliziotto che, nelle ore in cui il figlio entrava in coma, ha scritto una lettera dilaniata e dilaniante all’associazione Antigone. Racconta di come Roberto fosse distrutto per la mancanza di sostegno medico e per il caldo torrido, a cui non avevano potuto ovviare le scarse bottigliette d’acqua che era riuscito a procurarsi con il denaro passatogli dalla famiglia, pagandole a peso d’oro. E di come fossero stati gli altri detenuti, anziché le guardie, a soccorrerlo al momento del tentato suicidio.
Un padre disperato non si giudica, si ascolta e basta, ma chissà se adesso qualcun altro, oltre ai soliti pochi, comincerà a trovare sconvolgente che dall’inizio dell’anno, nelle carceri italiane, di persone come il figlio del signor Vitale ne siano già morte più di sessanta. Che, in barba all’articolo 27 della Costituzione, le pene non tendano alla rieducazione, ma alla rimozione del reo. E che la pena di morte non sia ammessa, ci mancherebbe, ma troppi vengano posti nelle condizioni di autoinfliggersela.