La Stampa, 17 settembre 2022
La guerra spiegata ai ragazzi
La scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievi?, Premio Nobel per la letteratura, in uno dei suoi libri dal titolo La guerra non ha un volto di donna raccoglie la testimonianza di una giovane che aveva partecipato alla Seconda guerra mondiale: «Posso raccontare come ho combattuto e sparato, ma raccontare quanto e come ho pianto non posso. Questo resterà non detto. So solo una cosa: in guerra l’uomo si trasforma in un essere spaventoso e oscuro». In queste righe è riassunta la ragione che mi ha spinto a scrivere un libro a voi, ragazze e ragazzi: raccontare come si piange in guerra non si può, quello che si sa è che “in guerra l’uomo si trasforma in un essere spaventoso e oscuro”.
È su quell’essere spaventoso e oscuro che siamo chiamati a interrogarci. È quell’essere a riempirci di domande.
Perché, dunque, scrivere di guerra? E perché scrivere di guerra a voi? Perché la guerra è dubbio, perché la guerra è un esercizio incessante di dilemmi, perché la guerra dovrebbe insegnarci ad ascoltare le ragioni dell’altro.
Nei mesi che ho recentemente trascorso a raccontare l’invasione russa dell’Ucraina, mi sono spesso chiesta se ci fosse una formula per poter riassumere a chi non ha mai visto una guerra quale ne sia la natura.
L’immagine che lego a questa domanda è riassunta dai binari delle stazioni ucraine nelle prime settimane successive all’invasione. Da una parte c’erano gli uomini che restavano, dall’altra le donne e i bambini che andavano via. Erano ammassati prima sulle scale, in attesa, poi sul binario, quando il treno si avvicinava, e da ultimo si confondevano in un groviglio di corpi che si spingono, allontanando le persone vicine dalle porte di ingresso, cercando di salire per primi. Donne che tenevano con una mano i figli, con l’altra una busta di viveri.
La lotta per conquistare un posto che portasse via dalla guerra, l’immagine di un’umanità sradicata dalla terra natia, e ridotta ai propri istinti primitivi. Il primo tra tutti quello della sopravvivenza.
Il binario era simbolo di una formula che accomuna tutti in tempo di guerra: tutti avevano una vita di prima. L’aveva Alina, che era una giornalista e si è trasformata in volontaria per aiutare i profughi. L’aveva sua nonna, che era una tranquilla pensionata e si è trasformata nella cuoca dei soldati al fronte. L’aveva Olga, che lavorava in una banca e ha potuto prendere da casa solo una busta di viveri e qualche vestito per i figli prima di scappare. Olga aveva salutato la sua casa e gli oggetti che le appartenevano, le sue abitudini; e sul binario, con in braccio la figlia, mi ha detto: «Non ci penso già più alla vita di prima».
Non ci pensava già più perché si stava abituando all’i- dea che non sarebbe tornata. E che se anche fosse tornata, la loro vita era ormai cambiata per sempre. La guerra li aveva trasformati da persone, cittadine e cittadini, lavoratrici, giovani studenti a profughi, sfollati, rifugiati.
Questa trasformazione ci spinge a riflettere su due punti. Il primo è quello di chiederci sempre, ragazze e ragazzi, se le parole che usiamo per descrivere la realtà e gli esseri umani non rischino di diventare una gabbia. Per questo una parte del libro è dedicata al racconto delle parole: cosa significa rifugiato, cosa sia una guerra civile, e così via. Scriverlo per voi è servito a me come ginnastica e promemoria: perché le parole, questo straordinario strumento di cui siamo dotati per dare senso al mondo, vanno accudite, e il modo che abbiamo per accudirle è non usarle con superficialità. Perciò, ogni volta che definiamo la vita di un essere umano chiamandolo “rifugiato”, “profugo” o “migrante”, dovremmo aver chiaro che rischiamo di associare a quella vita un’etichetta che non rende giustizia alla sua vita di prima. Alla vita in cui quel rifugiato o profugo o migrante era uno studente, una lavoratrice, un padre, una nonna.
Il primo invito, dunque, è quello di conoscere in profondità il senso delle parole che usate ed essere sempre consapevoli che definire può essere anche una forma di limitazione. Ancora di più, definire in tempo di guerra: si rischia di generalizzare le vite delle persone al loro unico stato di vittime. E se c’è una cosa che le vite della guerra mi hanno insegnato in questi anni, invece, è che chi vive e sopravvive a un conflitto non vuole essere raccontato come una vittima, ma come una donna, un uomo tenace che va avanti nonostante quel conflitto.
Il secondo punto su cui vorrei farvi concentrare, ora che cominciate la lettura, è un tentativo di immedesimazione. Provate a chiedervi, all’inizio di ogni capitolo: “Cosa farei io se…”. Cosa farei io se fossi Alina, oppure Olga, se fossi Husen, oppure Shadi? Immaginate di dover uscire dalla vostra cameretta ora, per andare su quei binari delle stazioni ucraine, col rischio di non tornare più indietro. Che oggetti prendereste?
Immaginate che la vostra nuova casa sia, per quattro o cinque anni, una tenda in un campo torrido, con i bagni condivisi da cento, duecento persone, dove l’acqua e il cibo sono razionati. Che emozione sentireste crescere dentro di voi? Disperazione o rabbia?
Immaginate che l’unico modo per scappare dalle bombe sia salire su un gommone con altre cento persone: bambini che piangono, padri e madri che gridano. Sareste su quel gommone senza salvagenti e senza bussola, con la sola speranza che qualcuno vi trovi in mare aperto. Come sperereste di essere accolti, una volta arrivati a terra?
Immaginate che i vostri genitori siano privati del loro lavoro, della vicinanza degli amici, e costretti in prigione perché ostacolano un regime. Cosa sareste disposti a fare per metterli in salvo?
Immaginate di dover spiegare a un bambino che ha fame e sete che non c’è più né acqua né cibo.
Vi chiedo questi esercizi di riflessione perché è quello che chiedo a me stessa, ogni volta che sto per cominciare a trasformare in racconto una storia che ho ascoltato.
L’unico modo che ho per rendere giustizia a quella storia, a quella vita, mi dico, è cercare di sentirla come fosse la mia. E portare il lettore, in questo caso voi, dove io sono stata.
Farvi sentire gli odori, vedere le sfumature di colore, assorbire i miei dubbi, ascoltare le donne e gli uomini, gli anziani e i bambini che ho avuto il privilegio e la responsabilità di incontrare e ascoltare.