La Stampa, 17 settembre 2022
L’Italia per la russia è come Taiwan per la Cina
«Le lacrime dei nostri sovrani hanno il gusto salato del mare che vollero ignorare». Il motto attribuito al cardinale di Richelieu (1585-1642) traversa i secoli. Non potremmo trovarne di più pertinente per l’Italia d’oggi. Battuta dai venti della Guerra Grande la nostra poco sovrana repubblica stenta a coglierne la posta strategica: dominio delle onde. Del mare di casa, Mediterraneo per la cartografia corrente, Medioceano in geopolitica perché connette Atlantico e Indiano, già a fuoco nel Mar Nero investito dall’assalto russo all’Ucraina. E dei Mari Cinesi, cuore del Medioceano estremo-orientale, epicentro dello scontro tra Washington e Pechino sulle rotte dell’Indo-Pacifico.
Il centro di quel mare è Taiwan, del nostro l’Italia. Rispettate le proporzioni, la sfida scalena fra Stati Uniti, Cina e Russia si deciderà sul controllo dello Stretto di Taiwan e di quello di Sicilia. Perni delle rotte oceaniche che legano Cina e America via Eurafrica. Oggi. Domani forse attraverso la rotta artica, ovvero russa, per la cui liberazione dai ghiacci si prega ogni giorno al Cremlino con spreco d’incenso. Cerimonia che confidiamo si ripeta nei nostrani “palazzi del potere” a intenzioni invertite. Giacché la fusione del pack artico comporterebbe declassamento del Medioceano di casa, riportato all’originario calibro mediterraneo, frontiera aperta fra Europa, Africa e Asia. Placche geopolitiche in avvicinamento. Non vorremmo un giorno risvegliarci attraccati a Caoslandia.
Dal 24 febbraio l’Italia ha un nemico autodichiarato. Per la Federazione Russa siamo “Paese ostile”. Scrutato con rancore, dopo che da quando esistiamo come Stato unitario e sotto qualsiasi regime o governo abbiamo stabilito con la Russia – zarista, rossa o post-sovietica – relazioni davvero speciali in ogni campo, fino a dipendere dal suo gas. Il filo della russofilia italiana non s’è mai spezzato, nemmeno quando ci avventurammo alla conquista dell’Unione Sovietica al fianco di Hitler. Su quella catastrofe costruimmo anzi il mito “italiani brava gente”. Battezzato dall’omonimo film di Giuseppe De Santis, coproduzione italo-sovietica (Galatea-Mosfil’m) del 1964. Colonna sonora “Italiano Karascio” interpretata da Giancarlo Guardabassi e Teddy Reno su musica di Armando Trovajoli. Con variazioni tattiche nel titolo della pellicola: sul mercato alleato virava nel tecnico-allusivo “Attack and Retreat”, mentre per i compagni/nemici valeva l’anodino “Loro andavano a Oriente” ("Oni šli na Vostok"), dove il movimento monodirezionale dei nostri alpini era bravamente smilitarizzato.
Ancora oggi ai russi riesce difficile odiarci con l’intensità che merita uno hostis. L’attività militar-spionistica congrua all’"operazione militare speciale” è punteggiata da messaggi sotterranei all’insegna del «dài parliamoci noi che ci capiamo», cui i nostri apparati di norma oppongono prudente silenzio. Per una volta italiani e russi sono d’accordo nel vietarsi la parola “guerra”. Loro perché la fanno ma preferiscono non dichiararla per non eccitare proteste domestiche. Noi perché non possiamo dirlo nemmeno quando la facciamo – estremo il caso dell’attacco alla Jugoslavia – causa tabù psico-cultural-costituzionale.
Resta che in guerra siamo. Posto che con questo termine non si descrive più solo l’uso della forza da parte di eserciti contrapposti ma la sequenza di operazioni ambigue, palesi e segrete, “cinetiche” ed economiche che investe tutte le dimensioni del conflitto. Le attività non convenzionali come convenzione. Rovesciamento identificato nel gergo mediatico quale “dottrina Gerasimov”, onore al capo di Stato maggiore della Difesa russo, cui ironia della storia aveva imposto la responsabilità di gestire il conflitto ucraino, quanto di più simile alle classiche guerre di posizione sia possibile con le tecnologie correnti. Forse anche per questo la sua performance è risultata tanto scadente da indurre Putin a esautorarlo di fatto dopo pochi giorni. Né si sa dove vaghi la sua ombra, di cui si segnalano rapsodiche apparizioni.
Ammesso e difficilmente concesso che noi si sia “brava gente”, questa leggenda è assurta a maschera della molto più concreta tendenza italiana all’irresponsabilità. Fondata sul rifiuto della realtà. Chi non si rende conto dell’ambiente in cui vive ne diventa vittima quando l’atmosfera si surriscalda. Nel contesto bellico in espansione, visto dal mare il Belpaese è boccone grosso, gustoso, disponibile.
Piccolo esercizio per chi volesse continuare a far finta di nulla.
Domanda: dove amerebbe trovarsi sulla mappa dell’Euromediterraneo una potenza marittima che volesse dominarlo?
Risposta: In Italia, diamine!
Domanda: Qual è questa potenza?
Risposta fino a ieri: L’America, dal 1945.
Risposta da oggi: L’America, se vorrà tenerla. I suoi avversari, altrimenti. Fuori e dentro l’Alleanza atlantica. Magari in coabitazione.
Nessuno è obbligato a chiedere agli italiani il loro parere su che cosa vogliano. Ma gli italiani sono obbligati a darlo, anzitutto a sé stessi. È il momento di battere un colpo per non scoprirci poi a intonare l’ennesima geremiade postuma di chi incolpa delle sue disgrazie il destino cinico e baro. Buon avvio sarebbe ammettere a noi stessi che in questa guerra ambigua siamo immersi e che nei prossimi mesi ne sperimenteremo acuti riverberi almeno economici, tali da minacciare non solo la pace sociale e la psiche collettiva ma la sicurezza nazionale. —